UN VIAGGIO AMMATULA: fra l’urina di un pitale, il pene di un cane e problemi di flatulenza …
Ci sono parole che da sole, in un ipotetico teatro dell’utopia, varrebbero il prezzo del biglietto. Ammàtula è una di queste. E lo è non solo per la sua indubbia musicalità, ma anche e soprattutto per il mistero di cui sembra ammantarsi. No, non si tratta di un patronimico finlandese (anche se Jakko Ammàtu(o)la, potrebbe suonare credibile). Qui parliamo di una parola orgogliosamente sicula, il cui etimo sembra non lasciare chiare tracce di apparentamento con altre lingue del Mediterraneo.
Un unicum dunque. Tanto che ancora oggi la parola viene contesa tra una voce di derivazione greca, una latina e una araba, risultando uno dei banchi di prova più duri e stimolanti per il linguista/detective, lo Sherlock Holmes delle parole scomparse. O se si vuole, l’Indiana Jones dei vocaboli perduti.
E’ una bella storia quella di ammàtula e merita di essere raccontata tutta, con ordine. Partendo intanto dal suo significato intrinseco. Se qualcuno vi dice che “parlate ammàtula” non vi sta di certo adulando. La traduzione secca è impietosa così come lo è spesso il tono con cui si pronuncia la seguente frase. Con la tipica inversione sicula, suonerà in questo modo: “ammmatula parli“. Ossia: “parli inutilmente”. Suggerimento non troppo velato che si dà a chi non si esime dal dare fiato alla bocca nonostante non sia per niente sicuro di quello che stia dicendo, nè sia, peraltro, richiesto il suo intervento. Un errore di base ancora imperdonabile in Sicilia.
Un salto indietro nel Medioevo intanto ci racconterà che la “matula” era una boccetta di vetro racchiusa in una fasciatura di paglia, usata per la raccolta delle urine dei pazienti: una sorta di piccolo pitale con le caratteristiche base del tradizionale fiasco del vino. Ora, non è un mistero che la scienza di Ippocrate, la medicina, non fosse propriamente infallibile a quei tempi. Non era pertanto insolito che l’errore del dottore nel diagnosticare le malattie spesso portasse i malati fino alla morte. E le sorti del moribondo spesso passavano per l’analisi dell’urina che si raccoglieva nella matula. Probabile che il senso della parola venisse sedimentandosi nel tempo con l’espressione: “essere curato a matula”. In cui ormai, “a matula”, era diventato sinonimo di “senza speranza”. Ammatula appunto.
Un’altra versione parimenti sfiziosa la farebbe derivare dal latino “ad mentula”, l’organo sessuale maschile, espressione usata con il significato di “a casaccio“. Versione questa che peraltro troverebbe piena continuità con la moderna espressione (triviale, per carità): fare le cose “a cazzo”, o “a minchia” specie se in Sicilia, dove peraltro spesso si insiste sul dettaglio di un innocuo e ignaro possessore: il cane…Espressione certo forte e colorita che denota da un lato un modo di procedere “non chiaro, confuso, disordinato” e che allo stesso tempo, potrebbe essere scivolata semanticamente, in qualcosa di “inutile e senza rimedio”. Ammàtula appunto.
A complicare le cose, come spesso accade in Sicilia parlando di dialetto, ci potrebbe essere di mezzo lo zampino del greco. L’espressione “màten”, ossia “invano”, sembra richiamare proprio quel campo semantico.
Fra le versioni più accreditate invece, da citare la pista araba, dove da “batil” (invano) si sarebbero geminate diverse espressioni con significato similare in molte altre lingue romanze: come nel castigliano/spagnolo (en balde), nel catalano (debades) o nell’occitano (en de bados). In questo caso, l’evoluzione per il siciliano potrebbe essere stata: am-bat(i)ul(a) > ammatula.
Il termine ammàtula poi ci parla anche di una curiosa leggenda, secondo la quale potrebbe anche derivare dalla parola “màttula” di provenienza latina, con il significato di “cotone“. E qui siamo nella terra di mezzo:dove la leggenda sfocia, anzi è già confluita abbondantemente nel mito. Di capriccio il seguente racconto.
Anticamente ai novelli sposi, per la loro prima notte di nozze, veniva donato un tubo foderato di raso all’interno e pieno di bambagia che veniva strategicamente collocato sotto le lenzuola del letto matrimoniale. A difesa di un’ancora innocente intimità, la coppia utilizzava questo tubo pieno di “mattula” che avrebbe dovuto assorbire le manifestazioni di meteorismo, incanalandole fuori dal letto. Una sorta di vanvera. Ma il marchingegno il più delle volte falliva, risultando inutile all’uso e da qui sembra essere nata l’espressione: “longu a màtula”: per indicare un procedimento tanto lungo e contorto quanto inutile. Ancora oggi, di una persona che, oltre all’altezza, non possiede null’altra qualità si dice: “longu ammàtula”.
Infine, c’è un proverbio siciliano che oltre a dispensare una meravigliosa massima, ci dà testimonianza dell’utilizzo di ammàtula in un contesto che per la sua natura è quasi letteratura.
Ammàtula ca’ ntrizzi e fai cannola, lu santu è di marmuru e non sura.
In traduzione fedele: è inutile che abbellisci i tuoi capelli intrecciandoli con boccoli, il santo è di marmo e non suda. Il detto pare alludere al tentativo da parte di una donna di sedurre con la propria bellezza una persona irremovibile, un Santo, che proprio in virtù di essere fatto di marmo non si lascia scomporre. Il proverbio è un distillato di saggezza popolare che, ad una prima interpretazione, intende probabilmente mettere in guardia gli innamorati dall’illudersi troppo davanti a qualcuno che invece sembra solamente interessato al freddo calcolo dei propri interessi.
Andando un po’ oltre, il significato può però riferirsi all’ inutile tentativo dell’adulatore di sedurre qualcuno abbellendo i propri discorsi, scontrandosi con l’irremovibilità dell’interlocutore. E’ questa l’interpretazione che preferisco, quella che lascia trapelare una grande virtù dietro al Santo che non suda: la temperanza, l’inflessibilità, la rettitudine morale.
Si pensi ad esempio a tutti i reati direttamente riconducibili all’azione corrosiva dell’adulazione: la corruzione, la concussione, l’abuso di ufficio, l’induzione indebita, la prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, la dazione o la promessa indebita, il mercimonio dei pubblici poteri… Sono tante le declinazioni della corruzione. E poi arriva Lei, come un fulmine a ciel sereno, a sparigliare tutto: Ammàtula!
Che sia nascosta fra le urine di un pitale, nel pene di un cane, fra i peli di barba di Socrate o fra i riccioli di Ibn Hamdis, o addirittura nel tubo di scappamento di una vanvera malfunzionante … che importa…
Quanta bellezza nascosta dietro ad una semplice parola, orfana, simbolo di una sicilianità ruvida ma genuina, indomabile e resistente al tempo stesso.
Gianvito Pipitone
La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri
L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.