Gaza, giorni decisivi tra democrazia e macerie

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Gaza, giorni decisivi tra democrazia e macerie

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martedì 07 Ottobre 2025 - 06:30

Hamas ha accettato i colloqui di Sharm el-Sheik.

Non tutto, non subito, ma abbastanza da far tremare il copione. Il gruppo islamista ha detto sì — in linea di principio — al piano di cessate il fuoco proposto da Donald Trump: venti punti che promettono scambio di prigionieri, ritiro graduale delle truppe israeliane e una governance internazionale della Striscia guidata — udite udite — da Trump stesso e da una vecchia volpe, Tony Blair, esperto dell’area, oltre che consulente della British Petroleum di bandiera britannica.

È una svolta diplomatica che nessuno si aspettava da lui, eppure eccolo: il Presidente degli Stati Uniti, con il consueto tono da teatrante, ha chiesto a Israele di “fermare immediatamente i bombardamenti su Gaza” per permettere il rilascio degli ostaggi. E quando la CNN gli ha chiesto cosa accadrebbe se Hamas rifiutasse, ha risposto senza esitazioni: “Annullamento completo!”. Il solito rischia-tutto a cui ci ha abituati il tycoon: o tutto o niente.

Hamas, dal canto suo, ha definito il piano “una base negoziale seria”, pur esprimendo riserve su disarmo e tempistiche. Ha accettato di cedere il controllo amministrativo della Striscia a una coalizione di tecnocrati palestinesi sostenuti da paesi arabi. Ha chiesto garanzie sul ritiro israeliano e sul rispetto del diritto internazionale.

E Netanyahu? Non è dato sapere. La settimana scorsa ha annuito davanti alle telecamere alla Casa Bianca, ha stretto mani, ha mandato i suoi negoziatori al Cairo. E puntualmente, appena rientrato nelle stanze del potere, ha ricominciato a cincischiare, stretto nella morsa della sua coalizione di estrema destra. Intanto, mentre si discute di linee di ritiro e amnistie condizionate, Gaza continua a bruciare.

Eppure, incredibilmente, è proprio nel punto più basso — tra le macerie, i cadaveri e le minacce — che la pace sembra oggi più vicina. Non per merito di qualcuno, ma per esaurimento. Per sfinimento.

Ciononostante, la notizia non apre i giornali. Né esteri, né nazionali. Troppo Trump, troppo Gaza, troppo scomoda. C’è sempre — a ragione — un po’ di scetticismo quando si muove Trump, e nonostante la speranza di una riuscita sia difficile e complicata, il percorso non sarà facile per tutta una serie di motivi.

Perché? Perché le facce della guerra israeliana sono molteplici. E sono potenti. Molto potenti, e non molleranno l’osso finché non sarà completamente spolpato. Netanyahu, in primis, che tutto sembra tranne che un leader in guerra: il suo testone annoiato, l’aria da impiegato abbrutito dalla routine, lo sguardo spento di chi firma decreti come fossero moduli per la mensa aziendale. In poche parole: la banalità del male. Sa benissimo che la sua salvezza è legata a due estremi: continuare la guerra ad libitum, fino all’ultimo gazawi, oppure salire a bordo di un nuovo governo appoggiato dall’opposizione più il Likud, il suo partito. Con l’opposizione che ha fatto sapere di essere disposta ad immolarsi pur di mettere fine alla guerra.

In fermento è il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich: freddo come il dottor Morte, a metà tra Xabaras di Dylan Dog e un gauleiter della Gestapo. È lui il pianificatore dei crimini di Gaza, che parla di profitti futuri e di “Riviera di Gaza” con la compostezza clinica di chi ha già disegnato il masterplan tra le rovine.

A lui si affianca il buontempone Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale israeliano, la nemesi di Torquemada — il grande inquisitore spagnolo, ironia della sorte contro gli ebrei. Fanatico, provocatorio, parla di “ripulire”, “ristabilire l’ordine”, “punire i traditori”.

Sono loro i personaggi di spicco, fomentatori dell’odio, quelli che Netanyahu proverà a convincere prima di tentare, nel caso dovesse andare male, il piano B con l’opposizione a bordo.

E certo, in situazioni di emergenza come quella di oggi, nemmeno l’opposizione più intransigente — se ancora questo concetto esiste nella democrazia israeliana — si tirerebbe indietro, pur di far cessare il fuoco, ritirare l’esercito e firmare la pace.

Probabilmente, a storcere il naso davanti alla prospettiva di una pace saranno alcune facce ben note in Occidente: in particolare le lobby dei paesi fornitori di armi, quelle che si mostrano affrante davanti alle telecamere e poi, lontano dai riflettori, firmano contratti di cooperazione militare con l’industria bellica israeliana, la Rafael.

Secondo il report dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), i principali fornitori di armamenti a Israele sono Stati Uniti, Germania e Italia. In testa al corteo: i tedeschi della Rheinmetall, l’italiana Leonardo e — va da sé — i colossi americani di Lockheed Martin.

Sono loro i veri protagonisti della guerra lunga, quella che non si combatte sul campo ma si pianifica in fiera, tra brochure e champagne.

Facce che rassicurano, che pianificano, che sorridono a bordo piscina. Facce che non vedono, o fingono di non vedere, i corpi che da tre anni cadono sotto i colpi dell’esercito israeliano.

I corpi, appunto. Sono ormai sessantasettemila i morti palestinesi dal 7 ottobre 2023. Fame, carestia, bambini ossificati, madri che non possono più allattare. Corpi avvolti in lenzuola bianche, corpi mutilati, corpi che implorano un pezzo di pane. I crimini dell’IDF sono stati documentati da medici, giornalisti, ONG.

Nel frattempo, nell’attesa di pace, la Striscia si presenta come un paesaggio apocalittico. Gaza City, Khan Younis, Rafah: città ridotte a macerie, ospedali distrutti, scuole rase al suolo. Le strade sono polvere, i palazzi sono rovine, le ambulanze non hanno più dove andare. Gaza anno zero.

Un paesaggio che ricorda le peggiori distopie televisive, ma che è reale. Non è fiction, non è scenografia. È il risultato di bombardamenti incessanti, di una guerra che ha trasformato un territorio già fragile in una discarica di detriti e dolore. E mentre si parla di “fase uno” del piano Trump, la Striscia continua a sprofondare.

Un giorno la Storia ci darà forse il giusto peso di quello che da più parti è stato definito genocidio.

Bisognerà pure capire che ruolo abbia avuto la Gaza Humanitarian Foundation, creata dagli Stati Uniti e sostenuta da Israele, in questo massacro degli ultimi mesi. La GHF è l’agenzia che il governo ha voluto per gestire la sicurezza alimentare. Ma da più parti è stata accusata di operare sotto scorta armata, con civili uccisi mentre tentano di accedere ai siti di distribuzione.

Sotto di loro, la fame è diventata strumento di controllo, il pane moneta di scambio. E il corpo, ancora una volta, diventa bersaglio. I loro amministratori, intervistati, hanno detto tutto il contrario, ma l’impressione è che questa sarà una storia da appurare con la massima attenzione.

Si, un giorno la Storia ci darà la sua versione. Speriamo di poter vivere abbastanza per essere testimoni della giustizia che meritano tutte queste persone massacrate impunemente da un’idea di vendetta che non ha prodotto solo morte, distruzione, fame e miseria, ma che ha messo tutti gli ebrei del mondo nella posizione più scomoda e più ignobile dai tempi immemori della diaspora.

E mentre Netanyahu continua a raccontare al mondo la favola della sicurezza, una crepa profonda si apre proprio nel cuore della diaspora. Secondo un sondaggio del Washington Post, il 61% degli ebrei americani ritiene che Israele abbia commesso crimini di guerra a Gaza, e circa il 40% parla apertamente di genocidio.

È una frattura storica, che rompe il legame emotivo e politico tra la comunità ebraica statunitense e lo Stato israeliano, tra chi, per storia e identità, avrebbe dovuto difenderla.

E, mentre tutto il mondo si muove, l’Italia resta al palo. E non per prudenza, ma per postura. Il governo Meloni, impantanato in una posizione di negazionismo e immobilismo, sembra incapace di leggere il momento. La gestione della Flottiglia, il silenzio sulle uccisioni dei giornalisti, l’assenza di una posizione chiara sul cessate il fuoco: tutto questo rischia di diventare un boomerang. Le piazze italiane, trasversali e indignate, lo hanno capito. E se il governo non cambia rotta, l’autunno potrebbe diventare incandescente. Non per ideologia, ma per dignità.

E ora?

Ora c’è da aspettare i prossimi giorni. Hamas ha fatto sapere che non basteranno 72 ore per rilasciare gli ostaggi ancora in vita. Trump, dal canto suo, ha parlato di “fine di una catastrofe lunga 3.000 anni”.

Ma l’impressione è che, prima di affrontare davvero il nodo fondamentale — due popoli, due stati — il cessate il fuoco, il ritiro dell’esercito da Gaza siano l’unico spiraglio possibile. E dall’altro lato, ovviamente, il rilascio degli ostaggi.

Dopo, ci sarà tempo per processare i responsabili di questo immane genocidio. E per piangere in silenzio la morte di questi innocenti che volevano solo che la Storia si dimenticasse di loro.

E invece — ironia della sorte — sarà proprio la Storia, sarà la memoria, a restituire loro finalmente un briciolo di giustizia.

Come accadde agli ebrei, quando il mondo si svegliò troppo tardi.

gianvitopipitone.substack.com

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