Filosofi al potere. Idee che governano, visioni che dividono

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Filosofi al potere. Idee che governano, visioni che dividono

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martedì 26 Agosto 2025 - 06:45

Associare i protagonisti della geopolitica contemporanea ai grandi filosofi della storia può sembrare un gioco ozioso da intellettuali in cerca di metafore, una provocazione da seminario universitario o, al peggio, un esercizio sterile. Eppure, è sorprendentemente istruttivo. E, diciamolo, anche piuttosto divertente.

I leader di oggi non si limitano a governare: vogliono incarnare un’idea, diventare il volto di una visione del mondo, il simbolo vivente di un principio filosofico. Non basta più amministrare bilanci o firmare trattati: bisogna rappresentare un destino, recitare una parte, costruire una narrazione forte. In questo, la filosofia — quella che interroga il potere, non quella che lo serve — diventa uno specchio prezioso. A volte deformante, a volte rivelatore.

Non si tratta di caricature né di esercizi scolastici, ma di un viaggio tra idee che oggi governano, dividono, seducono e spaventano. E, troppo spesso, purtroppo, uccidono.

Se Machiavelli avesse osservato Donald Trump, avrebbe sorriso con compiacimento. Il “Principe” americano non è un’anomalia, ma la conferma che la politica, svincolata dall’etica, diventa show business, calcolo e istinto di sopravvivenza. Trump parla alla pancia del popolo con slogan essenziali, nemici ben definiti e promesse roboanti. Non cerca coerenza, ma efficacia. Cambia posizione, contraddice se stesso, ma resta sempre al centro del palcoscenico. Machiavelli lo avrebbe definito maestro nell’arte di simulare e dissimulare: paciere in apparenza, bombardiere in pratica; difensore della pace, ma solo dopo averla minacciata. La sua strategia non mira al bene comune, ma alla stabilità del proprio dominio. “È meglio essere temuti che amati”, scriveva Machiavelli. Trump, amato da alcuni, si assicura di essere temuto da tutti. Non per la finezza delle sue analisi, ma per il peso del Paese che rappresenta.

D’altro canto, Vladimir Putin incarna con inquietante precisione la visione hobbesiana dello Stato-leviatano. Ex funzionario del KGB, uomo dai silenzi strategici, dalla faccia di cera e dallo sguardo glaciale, Putin non governa: sovrasta. La sua Russia non è una democrazia imperfetta, ma un sistema di controllo assoluto, dove la paura è moneta corrente e la lealtà il prezzo della sopravvivenza. Hobbes sosteneva che, senza un’autorità forte, l’uomo diventa lupo per l’altro uomo. Putin ha preso alla lettera questa massima, trasformando la sicurezza in giustificazione per la repressione. La sua geopolitica riflette una visione hobbesiana del mondo: l’Occidente non è interlocutore, ma minaccia. NATO, UE e democrazia liberale sono percepite come agenti del caos. Putin non è un’anomalia, ma la risposta autoritaria a un mondo disorientato, il riflesso oscuro di un bisogno di ordine che contagia pericolosamente anche le democrazie occidentali.

In modo diverso, Xi Jinping agisce come se la storia avesse già deciso e lui ne fosse l’interprete più fedele. Dietro la sua sobrietà si cela una visione hegeliana del potere: la Cina come sintesi di passato imperiale e futuro globale. Non rinnega Mao, non abbandona Confucio, non respinge il capitalismo: li assorbe, li fonde, li governa. Belt and Road Initiative, controllo tecnologico, diplomazia silenziosa: tutto parla di una razionalità che si realizza senza clamore, ma con precisione chirurgica. Xi non ha bisogno di gesti eclatanti: lascia che le strutture storiche parlino per lui. Il suo potere non è nel carisma, ma nel sistema. Un sistema più totalitario che in passato, perché irrimediabilmente connesso e sotto strettissimo controllo.

Allo stesso modo, Ursula von der Leyen incarna l’Europa kantiana: rigorosa, normativa, etica. Almeno sulla carta. L’imperativo categorico in tailleur. La sua visione è quella di una civiltà fondata sulla legge, sulla dignità, sulla pace perpetua — anche se armata. Ma come spesso accade con Kant, la bellezza del sistema è inversamente proporzionale alla sua applicabilità. L’Unione Europea, sotto la sua guida, si muove con la grazia di un elefante in una biblioteca: tutto è regolato, tutto è ponderato, ma nulla vibra davvero. Nulla sa di tangibile, di reale. Eppure, von der Leyen (e questa Europa) quasi non cerca il consenso facile, non cede alla retorica populista, non gioca con le emozioni. Ma l’etica da sola non scalda i cuori: l’Europa ha bisogno anche di anima, di voce, di coraggio.

Accanto ai grandi titolari del potere planetario si affacciano outsider della geopolitica: inquieti, ambiziosi, pronti a cogliere ogni spiraglio che la Storia concede. Non sempre dettano l’agenda globale, ma spesso ne alterano il ritmo. Alcuni si muovono con discrezione, altri con fragore. Tutti aspirano a qualcosa di più: non solo governare, ma incarnare un’idea.

Mohammed bin Salman, ad esempio, è il Platone del deserto. Vision 2030 crea una Repubblica ideale in cui il filosofo-re recluta i sofisti come consulenti. Ordine, gerarchia, modernizzazione: ma senza libertà, la giustizia resta incompleta. La rivoluzione dall’alto è più immagine che sostanza.

Recep Tayyip Erdoğan è invece un Nietzsche anatolico: non si accontenta di governare, ma vuole rifondare il senso stesso della Turchia. L’Impero Ottomano come eterno ritorno, la democrazia come ostacolo, l’opposizione come errore. Non chiede approvazione: impone visioni, crea valori, celebra se stesso come mito vivente.

Narendra Modi, presidente della più grande democrazia del mondo, appare come un Rousseau rovesciato: dove il ginevrino cercava la volontà generale come bene comune, Modi la trasforma in volontà maggioritaria, nazionale e identitaria, sacrificando le libertà individuali sull’altare del collettivo.

Infine, i populismi sudamericani — da Castro a Maduro, da Lula a Milei — non si impongono tanto per il loro peso strategico, quanto per la sorprendente abilità di tingersi del potere evocativo della filosofia. Marx diventa icona tropicale, brandito come vessillo, mentre la dialettica si fa machete e la rivoluzione ingrassa i capi. Tra sinistre che assomigliano a destre e destre travestite da ribelli, il continente recita il dramma di una rivoluzione incompiuta.

A questo punto, viene naturale chiedersi dove conduca il pensiero quando il potere si traveste da Idea. Tutti questi leader, che incarnano il potere ad ogni latitudine, non sono comparse. Sono filosofi mascherati da statisti, pensatori in uniforme, registi occulti di una sceneggiatura globale che, consapevolmente o meno, sfruttano la filosofia a proprio vantaggio.

A che serve, dunque, la filosofia, se i padroni del mondo dirigono in maniera così spietata la scena, ne riscrivono i dialoghi, alterano il copione, cambiano le regole senza attendere il consenso di nessuno?

Chissà. Forse la filosofia non deve opporsi al potere né farsi sua ancella, ma studiarlo e comprenderne le nefandezze. Deve insinuarsi con discrezione, disturbare senza clamore, e soprattutto aprire varchi dove tutto sembra già deciso. Non per offrire risposte, ma per restituire il diritto alla domanda. In ultima analisi, al beneficio del dubbio e dell’alternativa possibile.

E forse, più che nei leader, la filosofia può e deve servire ai singoli cittadini che non cercano verità assolute, ma che accettano il rischio di pensare in maniera critica. Anche soltanto per aiutarli a porgere una domanda che costringa il potente a guardare meglio dove stiamo andando. A cos’altro, se no?

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