Fenomenologia di Jannik Sinner

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Fenomenologia di Jannik Sinner

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mercoledì 11 Giugno 2025 - 06:30

Sì, ci si può sbagliare sull’esito finale di un banale incontro di tennis, senza tirare in ballo per forza il calcolo delle probabilità o l’intervento divino. Come la partita di ieri fra Sinner e Alcaraz, dove niente poteva essere stabilito a priori, con metodo scientifico, ma dove, ed è questo il nodo gordiano, neppure un triplice match-point consecutivo, a metà partita, quando tutto ormai sembrava stabilito, è bastato a decretarne il vincitore.

Fatalità, destino, sfortuna, perizia, coraggio, paura, resilienza, un turbinio di forze uguali e contrarie sono sembrate convergere caoticamente sul Centrale di Parigi, in quel preciso istante, durante i 3 match points che l’azzurro ha avuto a disposizione, senza saperne sfruttare nemmeno uno. E, cosa che è peggio, finendo per perdere la partita dopo 5 ore e mezzo di battaglia. Da una sliding door si è passati ad un’altra. E poi ad un’altra ancora. È accaduto nel corso della finale del Roland Garros a Parigi, destinata ad entrare nella storia, non solo per la sua durata record, ma anche per la qualità del gioco espressa dai due contendenti e per l’incredibile incertezza sportiva che l’ha caratterizzata fino al suo drammatico epilogo. Qualcuno, forse per smorzare la delusione a caldo, ha parlato del tennis come dello “sport del diavolo”. Di divino a Parigi ci fu un tempo Maria Callas. Di manifestazioni diaboliche invece non è dato saperne.

Quello che sappiamo staziona quasi sempre in superficie, come diceva Aristotele. E anche per questa volta non mi sento di smentirlo. Fra le poche cose che sappiamo, c’è ad esempio il dato esperienziale, incontestabile, che una buona parte del pubblico del Centrale ha tifato per Alcaraz, contro Sinner. Ci sta. È nelle prerogative delle libertà inalienabili dell’uomo esprimere consenso e/o dissenso in favore o contro qualcuno, qualora l’espressione di tifo si compia nel pieno rispetto dell’avversario. E comunque, seppure decisamente asimmetrico, non mi sento di asserire che il tifo del Centrale abbia comunque “sbracato”. Certo, sono ormai belli che andati i tempi in cui il massimo del sostegno dagli spalti veniva dal lento applauso ritmato, piuttosto che dai volgari cori da stadio di calcio a cui ci hanno abituato in tempi recenti i Centrali di tutto il mondo. Ma ormai, si sa, sembra diventato un must non solo lo schierarsi apertamente, ma anche e soprattutto farlo a favore di telecamera. Spike Lee insegna.

Ma non è certo l’aspetto della maleducazione del pubblico a colpirmi in questa storia. E nemmeno mi convince il “peso decisivo” del tifo sull’andamento del match: Jannik Sinner non ha certo perso perché i parigini hanno deciso di tifare spudoratamente Carlos Alcaraz. Certo, il pubblico influisce ma non determina il risultato, a questi livelli. L’altoatesino ha perso semplicemente perché il murciano si è dimostrato più forte e più freddo nei momenti decisivi. Stop.

Tuttavia, in quella che è la celebrazione di uno dei riti culturali (oltre che sportivi) di massa più importanti degli ultimi tempi, la finale di uno dei quattro tornei del Grande Slam, non faccio fatica a scorgere piuttosto altri aspetti o segnali interessanti da cogliere. Intendo, sugli spalti oltre che dentro il campo. Manifestazioni che ci parlano di altro, non solo strettamente di tennis e di agonismo. E che magari possono aiutarci a decriptare in maniera più completa i tempi in cui viviamo.

A memoria, solo un tennista particolarmente divisivo come il grande Nole Djokovic, riesce ancora oggi a spartire nettamente il tifo sugli spalti, in maniera così netta, polarizzando i consensi in maniera quasi scientifica. Ma in quel caso, si sa, la questione è spesso dettata dall’ atteggiamento del Serbo a dir poco provocatorio nei confronti delle convenzioni del political correct, in campo così come fuori dal campo. Quanto di più lontano, obiettivamente, possa esserci invece da Jannik Sinner, campione cristallino, dal comportamento impeccabile dentro e fuori dal campo. Ed è esattamente questo a stupire. Cosa può essere successo dunque ieri ai 15 mila francesi assiepati nella calura quasi estiva del Philippe Chatrier? Vale la pena approfondire questo aspetto.

Cerchiamo di analizzare mettendo a confronto le due grandezze in gioco. Per gioco e per diletto, ovviamente senza pretesa né di infallibilità né tanto meno di obiettività. Intanto partiamo dal carattere nazionale. Per un francese medio, sciovinista quanto basta, un italiano, uno spagnolo o qualsiasi altro europeo vale la stessa cosa. In teoria. In pratica no. Perché il benchmark dell’italiano sfocia nella sfera delle competizioni più iconiche, secondo la sensibilità del carattere francese: dal primato in cucina, a quello sui vini, dalla moda allo sport, dall’industria automobilistica a quella tout court alimentare. Francia-Italia è insomma sempre un mezzo derby, fra cugini di sangue diverso, ma pur sempre parentastri. Con mezza lingua quasi in comune, questione di accenti. In questo gioco, in ultima analisi, è in ballo non solo il primato di paese più bello artisticamente e naturalisticamente, ma anche quello più importante dal punto di vista storico e culturale, più accogliente e organizzato, più potente e rilevante nelle piccole quanto in quelle importanti questioni di geopolitica. Per tutte queste cose insieme, non ci si deve pertanto stupire se, qualora si tratti di decretare l’eccellenza nell’altro campo, nel campo avverso, comincino ad affiorare a galla le vecchie ruggini del passato. Quasi inevitabile. Nel calcio, per esempio, la cosa è lampante. Nel tennis, almeno fino a qualche tempo fa, no.

Quanto sono diversi i tempi rispetto a una ventina di anni fa. A fine degli anni Novanta, non ci si sognava neppure lontanamente di ancorare il tifo del tennis ad una questione prettamente nazionale. Noi boomers, ad esempio, cresciuti alla corte di McEnroe, Edberg, Sampras fino via via a Federer, non ci ponevamo mai il problema di tifare l’Italia del tennis, anche perché -certo- questa era rappresentata (detto con rispetto) da Caratti, Canè, Nargiso, Gaudenzi, Camporese. Ma indipendentemente da ciò, un tempo la nazionalità in campo per il pubblico del tennis contava il giusto, ossia poco, se non niente. Ricordo sul centrale degli Internazionali d’Italia a Roma Gabriela Sabatini o anche più recentemente Rafael Nadal, osannati dai romani a prescindere se il loro avversario fosse o meno italiano. Oggi, tutto ciò pare quasi impensabile. E il tifo contro, di puro posizionamento, oppositivo, sembra invece moneta corrente. Anche nel tennis, considerato fino a qualche tempo fa “porto franco” dove sembravano resistere ancora le cosiddette buone maniere. Ebbene, non più. Facciamocene una ragione.

Eppure, ci vedo più di un malcelato nazionalismo, in questo mancato amore di Parigi verso il numero uno al mondo italiano. Certo, i numeri 1, specie quelli di una volta, raramente facevano simpatia (ne ricordo uno in particolare burbero e che non sorrideva mai, Ivan Lendl), un po’ per definizione e un po’ perché portano con loro lo stigma di “uomini da battere”. E questo è un aspetto. Tuttavia, recentemente ci sono stati dei numeri uno abbastanza amati in maniera trasversale. Federer su tutti. E su questo, c’è poco da fare: il sorriso, lo sguardo, l’atteggiamento aperto, la genuinità, la naturalezza dell’approccio, tutto aiuta nella scala dell’empatia. Sospetto, senza però considerarlo decisivo, che il diverso carisma dello spagnolo Alcaraz, rispetto a Sinner, la sua “garra”, il suo continuo (ai limiti del fastidio) richiamare il pubblico, portandosi in modo anche un po’ smargiasso la mano all’orecchio, per sollecitare l’applauso, possa sicuramente pagare di più nell’economia di scambio di amorosi sensi con il pubblico. Ecco perché, chi sa muovere meglio le proprie pedine, trovandosi a proprio agio con un dialogo aperto con il pubblico, sembra partire sempre con una marcia in più. E questo vale in un campo da tennis, così come nella vita. Ma a mio avviso c’è ancora qualcosa in più da approfondire. Bisognerebbe forse allargare la questione ad una fenomenologia specifica, molto particolare, che potrebbe tranquillamente essere chiamata, azzardando un po’, la “sindrome di Sinner”, quella cioè del più bravo di tutti. Aspetto forse più difficile da rendicontare. Vediamo…

I più bravi hanno sempre attirato le antipatie, quando, dall’alto della loro consapevolezza, hanno scelto – per timidezza o anche solo per introversione di carattere – di non infierire sui loro compagni, o avversari. L’impressione è che Sinner, non solo sia il primo della classe, ma abbia una sensibilità così spiccata, da comprendere che la propria “superiorità” possa innescare un atteggiamento negativo, di insicurezza, non solo fra i suoi opponenti, ma anche fra coloro che lo guardano dall’esterno: il pubblico. E forse, quel meccanismo sociale di autoconservazione, potrebbe essere alla base di questa sorta di “self downgrading” (come si direbbe in economia), di auto declassamento, almeno sul piano dell’esteriorità e dei rapporti esterni. Paradossalmente il soggetto potrebbe trovarsi in imbarazzo, nel dover giustificare pubblicamente la propria bravura. Se poi, questa estrema sensibilità si innesta su una base di timidezza importante, ecco che il quadro è completo. Tutto questo, però, fortunatamente, non mi sembra che abbia portato fino ad oggi a nessun’ auto-mortificazione sportiva, né ad un auto-sabotaggio di carattere psicologico, dal momento che per essere numero 1, come Sinner è da quasi un anno ormai, bisogna essere più forti delle peggiori avversità (passando persino dalla gogna mediatica del Clostebol).

E quando un Pilato qualsiasi sale sul pulpito per decantare le doti dell’uno e dell’altro, ecco che la diversa sensibilità dei due protagonisti diventa specchio riflesso per un pubblico chiamato a riconoscersi. Da una parte, Alcaraz comunica forza, garra, spocchia, sicumera, potenza, lo spagnolo è un campione costruito per i forti, per i duri, per gli uomini che non devono chiedere mai, per coloro che credono che i rapporti di forza debbano ripagare necessariamente e ad ogni costo. Da lì l’immedesimazione del pubblico con il campione spagnolo, è un attimo: immediata, naturale, quasi animalesca. Dall’altra, Sinner, che impersona l’opposto, con la sua immagine filtrata da quella particolare struttura fisica: incarnato chiaro, colore dei capelli rossiccio, faccia da bravo ragazzo e un’eterna bontà dipinta sui suoi occhietti quasi indifesi. Tutto in lui comunica grazia, eleganza e una certa nobiltà. L’impressione, in ultima analisi è che chi ama Jannik Sinner, ancora prima delle sue mirabolanti imprese sul campo, abbia già metabolizzato le sue qualità interne. E ancora prima del gesto tecnico, abbia deciso da che parte stare.

Parigi è il teatro del mondo, dopotutto. E lo scontro che è andato in scena domenica scorsa, al Roland Garros, non è che l’inizio di una lunga epopea che è già diventata Mito: ad ognuno il suo Titano.

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