Il terremoto del Belice nelle testimonianze letterarie

Francesco Vinci

Il terremoto del Belice nelle testimonianze letterarie

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mercoledì 22 Gennaio 2025 - 07:00

Sono passati cinquantasette anni da quella tragica notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 in cui la Valle del Belice fu colpita da un violento terremoto che ha raso quasi totalmente al suolo i comuni di Gibellina, Salaparuta, Poggioreale e Montevago, causando gravi danni strutturali in tutte le altre località del territorio belicino che si estende tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. Il bilancio fu di centinaia di vittime accertate, un migliaio di feriti e di circa settantamila sfollati.

A parte le innumerevoli inchieste giornalistiche sul terremoto e sulla ricostruzione perenne, con le sue zone oscure e le sue controversie, le commemorazioni di rito, i documenti cronachistici e memoriali e le testimonianze dei sopravvissuti, in quasi sessant’anni dall’evento fatale, la Valle del Belice – e i suoi paesini fino a quel momento anonimi e misconosciuti, di quei posti che esistono soltanto nelle carte geografiche – è stata meta e crocevia di tanti attivisti e intellettuali, provenienti da ogni parte dell’Italia e fonte di alcune ispirazioni letterarie, oltre che artistiche e cinematografiche.

Come puntualmente scrive Leonardo Sciascia, in una pagina pubblicata nell’anno stesso del terremoto nel volumetto Quaderno di Montevago che raccoglie disegni e testi di alcuni studenti del territorio: Nessuno, fuori della Sicilia, sapeva dell’esistenza di un paese chiamato Montevago, al confine tra la provincia di Agrigento e quella di Trapani. Paradossalmente, il paese cominciò ad esistere nel momento in cui, sotto la zampata di una belva immane, finiva di esistere. Case, chiese, memorie d’arte e di storia: disgregate, cancellate per sempre. E tra i motivi per cui la pietà del mondo converse su Montevago distrutta c’è stato appunto questo: che la memoria del paese com’era, attraverso la voce di una bambina che leggeva un compito scolastico, fu subito viva anche in coloro che di Montevago, prima del terremoto, non avevano sentito nemmeno il nome”.

Di “disastro storico” parlerà, di contro, dieci anni dopo l’evento sismico, Vincenzo Consolo in uno scritto confluito nella raccolta postuma La mia isola è Las Vegas: “Quando un terremoto squassa e polverizza città o tessuti umani fortemente storicizzati, che nei secoli avevano cioè sviluppato una particolare storia, una loro cultura, una loro civiltà, oltre a distruggere vite e documenti e beni, ributta indietro i superstiti dal piano della storia al piano della natura: in pochi secondi essi fanno balzi indietro di secoli”.

Quasi un piccolo classico, per la sua dimensione straniante e allucinatoria, così come per l’estro linguistico, Gibella del martirio è invece il testo teatrale con cui Emilio Isgrò – uno degli artisti che hanno più assiduamente animato i fermenti culturali di Gibellina Nuova, divenuta nel frattempo un luogo simbolo, grazie soprattutto alla figura di Ludovico Corrao – ha inaugurato nel 1982 la prima edizione delle Orestiadi: “Fosse il mio nome Solitudine o Gibella / nell’afflizione eterna / io cercherei nel fondo della morte e nel suo buco / pace per questo figlio (meschino, meschino…) / e queste nuore a lutto.

Alla notte del terremoto Marilena Renda – poeta indigena, nata dopo il sisma, ma cresciuta nella baraccopoli gibellinese – ha infine dedicato il poema Ruggine, pubblicato nel 2012, che tematizza attraverso quattro elementi binari (l’acqua-esodo, lo zolfo-il terremoto, il lievito-la baracca, la macchina-la stella) il territorio e la trasformazione storica e antropologica di Gibellina.

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