Se è vero che il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, non è un caso che, tra tutte le isole delle Egadi, sia stata scelta proprio Favignana per ospitare il primo gay Pride della provincia di Trapani. L’ “isola Farfalla”, lo scorso 25 giugno, è stata il primo capoluogo degli arcipelaghi italiani, a mescolare i colori delle ali che danno forma a quelle che galleggiano su uno splendido ed accogliente Mediterraneo, con i colori della “bandiera della libertà”, la freedom flag, simbolo dell’orgoglio gay e lesbico dagli anni Ottanta e, oggi, del più “politic correct” LGBTQIA+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali + tutte quelle identità di genere e orientamenti sessuali non eterosessuali e non binarie che non rientrano nelle lettere della sigla). Un gesto che, magari non provocherà quell’uragano noto come “Butterfly Effect” ma che, ha sicuramente lasciato il segno all’interno e all’esterno di una piccola comunità dove, soprattutto in questo periodo, tanta gente arriva, ma soprattutto da dove molti vanno via. «L’orizzonte non ha confini e le isole hanno un orizzonte aperto da tutti i lati, ce lo offre il mare. E noi non possiamo non avere un orizzonte aperto sui diritti per tutti e per tutte» Ha detto Francesco Forgione il sindaco di Favignana spiegando il perché ha voluto il gay pride sull’isola. Una scelta politica, sicuramente, per l’aria marina protetta più grande d’Europa che, si è schierata al fianco di chi rimane sull’isola ad affrontare gli sguardi ostili. Gli stessi occhi che sono rimasti a guardare dietro le finestre la parata alla quale, invece, hanno partecipato membri delle comunità Arcigay di Trapani e Palermo (dove si terrà il prossimo 9 luglio), curiosi e turisti. Non è stata certamente la spettacolarizzazione ostentata che marcia a Milano (il prossimo 2 luglio), Bologna, Roma o Torino ma più pacata, discreta, quasi spaventata di andare a “parare” qui, dove alla fine della stagione, si rimane in pochi e comunque, noti. Tutto, però è servito per essere “out”, a venir fuori da quel “ripostiglio” dove spesso ci si nasconde. Ad ed essere finalmente visibili al mondo per ciò che si è. Perché in fondo si è sempre gli stessi. E soprattutto uguali. «Dagli anni ‘70-’80, alle feste sugli yatch ormeggiati qua e là sull’arcipelago, tutti avrebbero pagato per partecipare ai party che si tenevano al chiaro di luna, ballando Queen e Madonna fino all’alba, con fiumi di bollicine che bagnavano corpi perfetti. A nessuno importava l’orientamento sessuale di questo o quello. In quegli anni, eventualmente, si provava qualcosa di nuovo. Si osava. Si eccedeva. E di mirava allo status d’appartenenza: la villa, l’auto, la barca, la capacità d’acquisto. Si provava a sognare ad una vita diversa. Da allora non è cambiato granché. L’evoluzione della società non ha arricchito certe menti che restano povere e avide. Oggi c’è più apparenza rispetto a prima. Chi resta deve maturare un percorso. Deve fare un processo. Chi parte, ha scelto, come chiunque, di provare a raggiungere un sogno. Nella maggior parte dei casi, ti rendi conto che, ovunque, la gente, al posto di vivere, si accontenta». Sintetizza così Luca, che da anni ormai vive a Milano e fa parte della comunità arcobaleno di via Lecco. Qui è un via vai di un “NOI” che s’impone su un quartiere dove ci si ama senza identità di genere. L’essere si fa strada sulle vie e le “appartiene”. «E’ così, ancora oggi, se sei della categoria “extra lusso” non verrai etichettato rispetto a quella del genere. Nella moda, nella musica, nel design per esempio, imprimi uno stile. Viceversa menti piccole cercheranno di utilizzare contro di te l’indice del pregiudizio, dell’omofobia, dell’insulto. Ma è solo verso sè stessi che stanno puntando quel dito». E mentre qui a Milano ci si prepara a far correre una nuova onda pride a Favignana si continuerà a parlare, ancora per qualche giorno del pride.
Marina Angelo