Quali sono oggi i nomi siciliani più diffusi? La domanda è provocatoriamente mal posta. Esistono ancora infatti dei nomi “tipicamente siciliani”? In realtà, se si escludono quei pochi tipici esemplari dall’antico sapore siculo, come Accursio, Alfio, Santino, Rosario, Vito, Concetta, Croce e Crocetta, ormai abbondantemente in disuso, si può con tranquillità certificare che la Sicilia presenta oggi lo stesso identico ampio ventaglio di nomi del resto della penisola italica. Basta farsi un giro sul web per trovare le ultime aggiornatissime classifiche dei nomi più trendy. Anche qui, come nel resto d’Italia, a farla da padrone si troveranno: Leonardo, Francesco, Lorenzo, Alessandro per i maschietti e Sofia, Aurora, Giulia ed Elena per le femminucce. Una tendenza che la Sicilia sposa in pieno con il prepotente ritorno da qualche anno ormai ai “vecchi” nomi della tradizione classica italiana. Allo stesso tempo, sembra poi crescere l’incidenza dei nomi esotici, come Gabriel, Thiago, Thomas, Emily, Mia etc. Ma non è di questo che vogliamo parlare qui, per quanto un approfondimento sui vari –Kevin Pappalardo o Jacqueline Finocchiaro– siamo sicuri darebbe estreme soddisfazioni…
Il focus di questo articolo è invece sulle svariate versioni in cui i nomi italiani si sono “trasformati” proliferando ai tre angoli dell’Isola. Si tratta dei vezzeggiativi o nomignoli di matrice dialettale che, sia in un contesto familiare che nelle occasioni più formali, in Sicilia hanno da sempre affiancato e spesso rimpiazzato i rispettivi nomi ufficiali. E restringendo ulteriormente il campo: oggetto della nostra attenzione saranno i nomignoli desueti dal sapore decisamente retrò. Conoscerli, oltre ad essere divertente, ci aiuterà a ricordare e forse a ricostruire un pezzo di storia della Sicilia che a poco a poco va inevitabilmente scomparendo.
E come si fa a non cominciare da Giuseppe… nome fra i più diffusi nelle passate generazioni, che si è prestato spesso a grandi operazioni di trasformismo. Si va dai più banali Peppe, Peppino e Pippineddu passando per Puccio e Pino, per poi evolversi in Pippo e Pepe’. Sembra quasi uno scioglilingua ma non lo è, solo perchè manca ancora lui: Piddru. Che in alcune parti vira nell’ancora più incredibile e surreale: Puddru. Da Giuseppe a Puddru: un salto davvero niente male!
Ma non è il solo. Fifì’ e Fefe’, di pirandelliana memoria, sostituivano affettivamente il nome Filippo che aveva il difetto di essere un po’ troppo appuntito. Forse troppo fastidiosamente greco. Ancora oggi, l’homo siciliensis, quello che non deve chiedere mai, se proprio deve pronunciarlo per esteso, preferirà probabilmente colorarne la sua vocale atona: Fulippo. E così passa la paura. E quel leggero fastidio nel pronunciarlo si tramuta improvvisamente in una grande soddisfazione. Fulippo! Vuoi mettere?
Antonio è un altro nome abbondantemente massacrato. Cosa non è stato fatto con lui? via via deformandolo ad ogni cambio di stagione: Nino, Ninì, Nenè, Ninni, ‘Ntono in alcuni casi anche Totò o Toti. Ma certo, la palma d’oro in questo caso non può che andare a ‘Ntuzzu.
Vi do poi una dritta: i nomi che cominciano con vocali tronche (o consonanti impure, come ‘Ntuzzu) sono la passione dei siciliani. Ecco un altro esempio folgorante: Ignazio. Pur mantenendosi abbastanza simile all’originale colpisce nella sua declinazione in siciliano più che altro per il modo in cui viene pronunciato. Basta togliere la -i- iniziale e raddoppiarne la –gn- e, infine, triplicare la pronuncia della –zz- E il gioco è fatto! Provate a ripeterlo a voce alta per vedere l’effetto che fa. ‘Gnnnazzzziu! Non ha prezzo.
Altro nome su cui la fantasia dei siciliani si è particolarmente accanita è Girolamo. Si va da un intuitivo Gilormo a un saporito Ghiemmu, fino ad arrivare ad un clamoroso Mommo. E ancora meglio Mummino. Spesso accompagnato dall’appellativo cui viene riferito: zi’ Mummino. Da ricordare che in Sicilia la parola zio (zi’ oppure zu’) seguita dal nome, molto spesso non ha alcun riferimento al grado di parentela, ma denota ancora adesso un appellativo non privo di deferenza, con cui viene concesso chiamare le persone anziane (solo se autorizzati).
Un’altra declinazione è dedicata, manco a dirlo, al nome di Maria ed è lunga almeno quante le pietruzze della corona di un rosario majulino : Maricchia, Maretta, Maridrra, Maruzza, Mariuzza, Mara, Marichieddra, solo per citarne alcune …e così via ad libitum. Certo, oggi quasi tutte versioni ampiamente superate. Similare ricchezza di espressioni anche per Salvatore. Da Turiddu, passando per Toto’, Tito, Totu, si arriva fino a Ciccu. Sì esattamente, Ciccu, come l’aneddoto d’antan: “mamma Ciccu mi tocca”, troppo lungo qui da riportare per intero. Per terminare infine con un divertente Sasa’. Quest’ultimo, insieme a Saro, sono anche i vezzeggiativi di Rosario che, al femminile, Rosaria, danno vita ad uno dei nomi femminili più tipici della tradizione sicula: Sarina. Nome che è già di per sé stesso un lasciapassare per il passato, legato ai ricordi della figura della “cara vecchia zi’ Sarina”, quella per capirci secca e spigolosa, tutta pizzo e scialle che nelle fredde giornate d’inverno, si raccoglieva attorno ad un braciere (conca) sempre troppo striminzito per poterla riscaldare a sufficienza. Chi fra i siculi non ne ha avuta una in famiglia?
Per terminare la carrellata, infine basterà velocemente ricordare alcuni altri nomignoli più “eccentrici“, fra i quali si annoverano: Minico, Mimmu e Mimi’ (Domenico) che però sembrano d’importazione, Ciccio e Ciccino (Francesco), Batassano (Baldassare), Caluzza e Ciddruzza (Calogera), Binnu (Bernardo) Calorio (Calogero) Jacu e Jachinu e Jacu (Gioacchino e Giacomo), Giammitru (GianVito), Asparino (Gaspare), Cocò (Nicola), Liddru (Calogero). Questi fra quelli più colorati e divertenti, dove il gusto della “diminutio sicula” sembra abbia colpito più a fondo, producendo effetti in alcuni casi esilaranti.
Gustose infine le declinazioni di Vincenzo: ‘Nzinu e Vicè quelle ancora oggi attuali; ma ancora meglio quelle più antiche e ormai desuete: Cecè, ‘Nzulu e Nzuddru. Quest’ultimo addirittura nel catanese ha dato il nome a dei biscotti, i ‘nzuddri, dolci tipici adorati dal grande compositore Vincenzo Bellini che proprio a lui devono il loro nome.
E per finire vi lascio con un aneddoto sfizioso sui miei nonni, legato in certo qual modo all’utilizzo (o al non utilizzo, in questo caso) del nome proprio. Mio nonno Vito quando passò a miglior vita aveva appena 80 anni e c’è chi nella nostra famiglia giura di non averlo mai sentito proferire il nome di sua moglie, nonna Maretta, sua compagna di vita per oltre 60 anni.
Orgogliosamente “del ’13” come spesso amava ricordare, apparteneva ad una cultura ancora ottocentesca; aveva fatto la guerra sul fronte jugoslavo e aveva poi duramente sgobbato per 40 anni al “mulino di Papetto” a Petrosino, nel marsalese, per mantenere la sua famiglia. Alto quasi 1,80 e smilzo, andava particolarmente fiero della sua linea. A pranzo era uno spettacolo vederlo mangiare due piatti di pasta di fila accompagnandoli con l’irrinunciabile bicchierotto di vino “alto grado” (sorta di Marsala secco); mentre alla fine di ogni pasto si lanciava nell’unico show in cui amava concedersi: stringersi orgogliosamente la cintura di un punto, suscitando l’invidia di tutti i presenti.
Taciturno, dai tratti severi, con gli zigomi alti, come quella gente che aveva conosciuto tutte le insidie della vita. Dietro al suo sguardo arcigno e alle spesse ciglia ad accento circonflesso, però nascondeva un paio di occhietti piccoli e buoni. Ma soprattutto: adorava i suoi nipoti. Con sua moglie, nonna Maretta, grande figura di donna forte e vera mater familias, si completavano a meraviglia. E non di rado ci capitava di sorprenderli in atteggiamenti teneri e complici. Eppure, nonostante nutrisse un grande affetto nei confronti di sua moglie, non fu mai udito da umano proferire in pubblico il fatidico nome: Maretta.
Echi di un mondo ottocentesco, ruvido, agreste, fatto di un’educazione basilare e incasellato in una mentalità velatamente maschilista? Non saprei dire. Certamente, di questi tempi, un atteggiamento non propriamente votato al political correct. Ma la parte divertente della storia è un’altra e sta proprio nell’escamotage che lui aveva imbastito per sopperire alla bisogna.
Come altro chiamarla dunque mia nonna se non utilizzando il pronome personale alla seconda persona: “Tuuu !?!” E nel caso in cui mia nonna non avesse udito, come altro tornare alla carica se non con un nuovo: “O tuuu !?!”. Questa volta più alto di un tono sul pentagramma. E se lei ancora non si risolveva a rispondere? Niente paura: leggermente claudicante, si dava da fare a cercarla per tutto il chiano, un po’ spazientito e un po’ preoccupato di non vederla comparire, domandando a tutti quelli che incontrava: “Ma idda ddoco è?”* Rigorosamente in terza persona, ça va sans dire.
Ho il vago sospetto che il mio caro nonno fosse l’unico a ignorare volutamente la pletora di nomignoli con cui gli altri si ingegnavano a chiamare sua moglie: “Maricchia, Maretta, Maridrra, Maruzza, Mariuzza, Mara, Marichieddra…”. E che “Tu–o–tu !?!” non fosse altro che la sua personale versione nell’infinita catena del rosario di Maria.
Gianvito Pipitone
La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri
L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.