Giornata della donna tra coronavirus e società-uomo

Chiara Putaggio

Giornata della donna tra coronavirus e società-uomo

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domenica 08 Marzo 2020 - 12:10

Celebrare la donna ai tempi di un solipsismo esasperato e tristemente necessario ha qualcosa di surreale. Che significa essere donna nel 2020 in Italia? Io credo che una strana solitudine ci abbia già assalite da tempo.
È accaduto quando abbiamo assistito senza sufficienti forze e risorse alla morte di tante donne uccise per il sol fatto di essere donne. È accaduto quando abbiamo dovuto scegliere se essere madri o cercare una nostra realizzazione professionale. Aspetto questo che ha un doppio risvolto negativo perché se nasce un figlio in casa le esigenze aumentano e così al sacrificio della rinuncia del lavoro fuori casa si aggiunge quello di tante altre rinunce materiali che poi, a lungo andare, talvolta mettono la donna in una sorta di insana minoranza rispetto al compagno che rimane l’unico che porta soldi a casa e manda avanti la baracca.
Si aprono così lunghe parentesi di silenzi, che sono estremamente affollate di pensieri. Perché la donna pensa SEMPRE. E lo fa ancora di più quando non si esprime e, tragicamente, perché ha rinunciato a tentare di comunicare con chi non sa ascoltare, si reprime.
Perché la società è uomo, non vede, non ascolta le esigenze e i tempi della donna che sono mille volte più densi e veloci di quelli di un uomo.
Siamo multitasking per natura. Ricordo i tempi in cui mio figlio era ancora un poppante, allattavo mentre scrivevo di nera al Pc. Ma io non ho nulla in più rispetto alle altre donne. Siamo abituate a organizzarci per fare più cose insieme, e questo la società-uomo lo sa bene, e posso pure intuire che gli stia bene, per giunta. Ma nonostante ciò la lingua che usiamo per costruire il nostro mondo continua ad essere profondamente sessista. Paola Cortellesi ha realizzato un’analisi lucida ed estremamente esplicativa. Riporto una sola battuta: “zoccolo: ciabatta di legno; zoccola… non c’è bisogno di dirlo”.
Trovo scandaloso che il fatto che noi possediamo una vagina (che poi è la porta da cui ogni uomo è nato) diventi strumento di derisione e diminuzione.
Invece viene ignorato il fatto che, a differenza degli uomini, noi donne non siamo capaci di “pensare a niente”. Noi pensiamo sempre a qualcosa, a volte forse a troppe cose contemporaneamente producendo uno sforzo mentale che ci logora, se possibile, più della fatica fisica che, vi assicuro ogni donna fa, sia se lavora fuori casa, sia se è una casalinga.
Ci viene richiesta una maturità maggiore anche quando siamo poco più che bambine perché si sa, la donna matura prima e così c’è una sorta di tolleranza benevola se il maschietto fa il monello, perché è ancora un bambino (anche in piena adolescenza), non lo stesso accade per le coetanee che si devono comportare da signorine. Visione del mondo che viene purtroppo perpetrata anche dalle stesse donne adulte.
È come se chi ha già risalito la china volesse dire alle bambine-adolescenti-ragazze, con un corredo di simboli e atteggiamenti: “Sei nata donna, sappi che per te sarà più dura. Dovrai lavorare il doppio, dimostrare la tua integrità in ogni comportamento, essere più brava e assennata. Insomma, sbracciati e comincia subito, se vuoi farcela”.
In tutto questo enorme sforzo per essere PARI, il mondo perde un enorme patrimonio che potrebbe divenire progettualità e futuro: il pensiero fluente delle donne. Lo stream of consciousness, ossia il flusso di coscienza, lo hanno inventato Joyce e Svevo, ma ogni donna lo esercita in ogni istante della sua vita.
Il pensiero divergente è femmina, è colorato e alternativo, è una linea che procede in sei dimensioni, mentre il mondo maschio ne conosce solo tre. Che bello sarebbe il mondo se questo flusso vitale (magari anche conscio di quello mestruale, che scandisce epoche e ritmi di una vita che è sempre, comunque votata a fruttare)  fosse lasciato agire, essere, concretizzarsi. Invece spesso a far male sono proprio quelle donne che si mascolinizzano, specie nella ricerca dell’affermazione, o quelle che si adeguano al volere della società-uomo, relegandosi volontariamente in uno stato di subalternità, spegnendo fantasia e ambizioni.
Io immagino un tempo madre che sia cura alla solitudine, che pulisca via il virus (incluso quello della paura) e abbracci un mondo plurale dove ogni donna partorisca prima un’altra/alta idea di sé nel segno della costruzione, della freschezza, della verità, che poi sono sinonimi di nuova parità.

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