Nella storia siciliana degli ultimi 20 anni, uno dei settori che ha avuto maggiori contatti con la politica è sicuramente quello della formazione. Da queste parti, si sa, il problema dei problemi è l’accesso dei giovani al mondo del lavoro. E proprio il mondo della formazione, con i robusti finanziamenti ottenuti dai vari governi regionali o dall’Unione Europea, ha consentito a tanti siciliani di avere un’opportunità di lavoro o di maturare qualche competenze in più da inserire nel proprio curriculum. L’inchiesta “Dirty Training” condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria di Trapani, ha il merito non solo di far luce sui magheggi di uno dei ras della formazione regionale (il castelvetranese Paolo Genco, presidente dell’Anfe e di Forma Sicilia), ma soprattutto di contribuire a fare chiarezza. Per troppi anni, infatti, le discussioni intorno a questo settore sono state caratterizzate dal tipico atteggiamento che si ha quando si parla di qualcosa in cui si annidano chissà quali interessi. Da siciliani, riusciamo anche a immaginare la mimica di queste conversazioni a cui magari abbiamo pure partecipato: c’è chi strizza l’occhio, chi sussurra a mezza bocca, chi rotea platealmente la mano e chi si consente una chiosa colorita, parafrasando il classico “così fan tutti”. Uscire dal chiacchiericcio e far emergere davvero questi interessi può essere l’occasione giusta per riabilitare nell’immaginario collettivo un ambito come la formazione, in cui logiche affaristiche e relazioni pericolose hanno spesso tolto visibilità alle realtà serie, comunque esistenti anche in Sicilia. Con questa e con altre inchieste si creano infatti le condizioni per separare il grano dall’oglio, valorizzando le esperienze meritevoli e marginalizzando quelle costruite su logiche affaristiche. Considerazioni che possono essere estese in maniera più generale ai nostri tempi: di fronte all’incapacità spesso manifestata dalla classe dirigente italiana di autoriformarsi, troppo spesso la tendenza è quella di invocare l’azzeramento di tutto. A volte, va detto, la disillusione rispetto a quello che leggiamo o osserviamo con i nostri occhi raggiunge livelli tali da portare un po’ tutti noi a desiderare uno tsunami che travolga in un’unica devastante onda ogni ambito in cui si annidano ingiustizie o clientelismi. Un auspicio che però ci porta anche a dimenticare che gli tsunami non sono selettivi, né dotati di intelligenza: non colpiscono le località su cui si abbattono seguendo un’etica o un criterio meritocratico. Distruggono e basta. Col rischio di portare con sé anche i semi da cui dovrebbe passare la ricostruzione. E quel che comincia come una catartica liberazione, rischia di trasformarsi in un arido deserto.
Giudiziaria