C’è un confine sottile tra solidarietà e complicità. Un confine che lo Stato italiano, con l’operazione condotta sotto la Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Genova, ha deciso di presidiare con fermezza. Gli arresti di nove persone accusate di aver finanziato Hamas per oltre sette milioni di euro segnano un passaggio chiaro: in Italia non c’è spazio per chi sostiene, anche indirettamente, organizzazioni terroristiche, qualunque sia la narrazione utilizzata per mascherarne le attività. Secondo gli inquirenti, il sistema era strutturato e duraturo. Attraverso associazioni formalmente dedite ad attività benefiche, i fondi raccolti venivano in larga parte convogliati non per il popolo palestinese, per i bimbi e le persone che muoiono di fame, ma verso l’organizzazione militare Hamas o verso organismi ritenuti collegati e controllati dall’organizzazione. Una rete che, stando alle accuse, operava da anni e che avrebbe permesso il trasferimento di risorse economiche fondamentali per il funzionamento dell’apparato terroristico.
Il dato che colpisce maggiormente è che oltre il 70% dei fondi raccolti a fini dichiaratamente umanitari sarebbe finito a sostenere attività terroristiche. Un meccanismo che, se confermato, rappresenta una distorsione grave non solo della legalità, ma anche del dolore autentico di una popolazione civile che soffre e che nulla ha a che vedere con il terrorismo. Tra gli arrestati figura anche Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia, definito dagli investigatori come un esponente del comparto estero di Hamas e vertice della presunta cellula italiana. Un nome noto nel dibattito pubblico, spesso presente nei media, che oggi diventa simbolo di una questione più ampia: quanto sia facile, in assenza di controlli rigorosi, trasformare l’attivismo politico e umanitario in uno strumento di propaganda e finanziamento illecito.
Le indagini, avviate ben prima del 7 ottobre 2023 grazie a segnalazioni di operazioni finanziarie sospette, si sono sviluppate attraverso un lavoro complesso di cooperazione internazionale. I flussi di denaro, le triangolazioni bancarie, i rapporti con soggetti all’estero e le intercettazioni dipingono, secondo l’accusa, un quadro di adesione ideologica e operativa ad Hamas, non una semplice vicinanza politica. Emblematiche, in questo senso, le conversazioni intercettate in cui alcuni indagati esprimevano apprezzamento per attentati terroristici, considerate dagli investigatori un segnale chiaro di condivisione delle finalità e dei metodi dell’organizzazione. Il messaggio lanciato dal governo è netto. Le parole del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni sottolineano una linea che non ammette ambiguità. Ma va detto, al di là di quello che possano pensare i nostri governanti: questa operazione non è un attacco alla causa palestinese, né tantomeno alla libertà di espressione. E non deve esserlo, perchè è pericoloso sconfinare il limite – come dicevamo prima – tra solidarietà e scopi propagandistici di un’organizzazione come Hamas. Difendere i diritti di un popolo non può mai significare finanziare chi usa la violenza indiscriminata come strumento politico. E non deve significare nemmeno fraintendere o prevaricare uno Stato sull’altro, determinate ragioni su altre. Proprio come avviene nella continua lotta – annosa e dolorsa – tra Israele e Palestina. Su questo terreno, oggi più che mai, non sono ammesse zone grigie.