La presidente Giorgia Meloni ha detto che la sua idea di Europa non è quella di Ventotene. Lo ha detto limitandosi ad una lettura superficiale di qualche stralcio del Manifesto scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nell’isola in cui erano stati confinati dal fascismo a causa delle proprie idee politiche divergenti rispetto al regime. Evidentemente, l’idea di Europa di Giorgia Meloni è quella di un continente in cui ognuno torna a curare i propri orticelli politici e i suoi interessi economici. In cui si tratta per un posto di governo per Raffaele Fitto ma poi si flirta con Trump che impone i dazi alle nostre produzioni. Quella in cui si dice a microfoni aperti di sostenere l’Ucraina, ma fuori onda si tifa per l’accordo Trump-Putin che taglia fuori Zelensky.
A Giorgia Meloni, dunque, non piace l’Europa che ci chiede di rinunciare a quote di sovranità nazionale nel nome di un organismo più ampio, in cui le decisioni più importanti si prendono assieme ai francesi, ai tedeschi, agli spagnoli, agli olandesi, ai portoghesi, agli irlandesi o agli scandinavi. Alla nostra presidente del Consiglio piace l’Europa dei nazionalismi, un po’ come al collega ungherese Orban. Dimenticando, probabilmente, che l’Europa dei nazionalismi l’abbiamo già avuta ed è quella che ha prodotto Benito Mussolini, Adolf Hitler, Antonio Salazar, Francisco Franco, i colonnelli greci. Regimi autoritari che hanno seminato macerie sociali, economiche, morali e civili nei propri Paesi e che hanno trasformato l’Europa in un tetro scenario di guerra. Proprio in contrapposizione a quell’Europa nasce il manifesto di Ventotene, un documento che è legato strettamente allo spirito del suo tempo, ma che ha avuto la lungimiranza di immaginare – nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale – un continente che dopo secoli di conflitti non sta più a contendersi l’Alsazia e la Lorena, ma mette in comune risorse umane, economiche e sociali per dar vita a un tempo nuovo, nel segno della pace e della cooperazione, della cultura e dei diritti. Un progetto che Giorgia Meloni si è divertita a dileggiare in Parlamento, come se fosse l’ennesimo fendente da scagliare contro quell’idea di progresso che tanto piace ai tecnocrati di Bruxelles e agli intellettuali di sinistra.
Eppure, a Giorgia Meloni basterebbe fare un giro per le scuole o le università italiane per capire quanto si sentono europei gli studenti italiani, cresciuti con la doppia cittadinanza (nazionale e comunitaria), con l’idea di poter trascorrere un anno di studio all’estero, di mettersi in gioco con l’Erasmus, il Comenius o il Leonardo, di potersi sentire liberi di andare a lavorare in un Paese dell’Unione senza sentirsi stranieri. Probabilmente, nelle prossime ore Giorgia Meloni riceverà un messaggino di congratulazioni da Donald Trump, Elon Musk, Steve Bannon, Javier Milei o Vladimir Putin. Ma potrebbe presto accorgersi che mentre volta le spalle all’Europa per avere qualche pacca sulle spalle in più da quell’internazionale sovranista a cui si sente vicina, una parte consistente dell’opinione pubblica italiana, a partire dai più giovani, comincerà a voltare le spalle a lei. In maniera irreversibile.
Sul Manifesto di Ventotene si è scatenato il dibattito per le estemporanee estrapolazioni che ne ha fatto la leader Meloni alla Camera. Il Manifesto è un corposo documento, redatto nel 1941 nell’isola di Ventotene da due antifascisti, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. Mandati al confino fascista, si dedicarono alla formulazione del documento sul futuro auspicabile della nuova Europa, dopo la conclusione del conflitto mondiale allora in corso.
Il Manifesto è più noto che letto, anche per l’oggettiva fumosità dell’esposizione. Rispetto ad altri manifesti famosi, come quello dei comunisti, dei fascisti e degli antifascisti, è il meno chiaro nell’analisi e nelle indicazioni. Tuttavia, ha avuto la sorte di diventare il testo fondante di molte retoriche: dell’Europa unita, della Resistenza, della lotta al fascismo, della Costituzione italiana, della Repubblica. È diventato simbolicamente qualcosa di più importante di quello che realmente è: una meditazione confusionaria con aspirazioni di rinnovamento politico
A suo modo ha contribuito a formare la mentalità delle classi dirigenti successive, entrando nei dibattiti che produssero i nuovi avvenimenti, in Italia e in Europa. In effetti, non fu nulla di decisivo e la storia, senza quel Manifesto, avrebbe ugualmente generato la nuova Europa uscita dalla guerra. Detto ciò, giova rilevare che sono passati oltre ottanta anni dalla conoscenza di quel Manifesto e gli animi, allora contrapposti tra fascisti e antifascisti, non sono ancora approdate a un sano dibattito culturale. È bastata un’improvvida citazione del presidente del Consiglio alla Camera dei deputati per scatenare i pregiudizi di quel tempo remoto, di cui pochissimi ormai sono i superstiti viventi.
La storia non ha nulla insegnato in materia di tolleranza, sano ragionamento, oggettive interpretazioni dei fatti, una volta che il presente sia divenuto passato remoto. L’Italia della faziosità, del rancore e dell’individualismo continua a prevalere e ad affliggere.