È nato il sindacato delle influencer. Obiettivo: dare dignità alla professione del decennio

redazione

È nato il sindacato delle influencer. Obiettivo: dare dignità alla professione del decennio

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lunedì 27 Luglio 2020 - 09:47

L’obiettivo? “Eradicare disuguaglianze e pratiche poco trasparenti e aiutare gli influencer a comprendere il proprio valore ed essere compensati equamente”

Durante il lockdown si è discusso molto del ruolo dei fashion influencer. Come sono cambiati i loro contenuti e la loro relazione con i follower mentre venivano meno le condizioni che avevano portato alla loro affermazione? In tempi di pandemia e incertezza collettiva, aveva ancora senso postare foto spensierate di outfit e beauty look?

Il discorso si è poi evoluto intrecciandosi a un altro fatto di cronaca che ha investito le nostre vite (e i nostri feed). Durante le manifestazioni per e con il movimento Black Lives Matter, molte influencer ne hanno approfittato per parlare finalmente del razzismo che permea (anche) il mondo del fashion influencing – vedi influencer di colore scartate da progetti importanti e/o pagate meno delle colleghe bianche per gli stessi. Il fatto è che nel 2020 quello delle influencer non è più una realtà marginale, anzi.

Nel 2022 l’industria dell’influencer marketing dovrebbe raggiungere un giro d’affari di 15 miliardi di dollari, secondo le stime di Vogue Business, e solo nell’ultimo anno sono nate oltre 380 nuove agenzie e piattaforme di influencer marketing nel mondo, si legge sull’ultimo report di Influencer Marketing Hub. Non stupisce quindi che, a distanza di poche settimane l’una dall’altra, in America e in Inghilterra siano nati i primi sindacati degli influencer, istituiti proprio per tutelare il lavoro e gli interessi di questa categoria in continua ascesa.

Se a giugno aveva visto la luce l’American Influencer Council (AIC), a opera di un collettivo guidato dall’influencer e attivista di colore Qianna Smith Bruneteau, in questi giorni è nata invece The Creator Union (TCU), fondata da un gruppo di Instagrammer britanniche. Come spesso accade di questi tempi, entrambe le associazioni sono emerse sulla scia di un account Instagram, @InfluencerPayGap, una sorta di @DietPrada degli influencer che smaschera i brand con la peggiore condotta (spesso in forma anonima).

L’obiettivo? Eradicare disuguaglianze e pratiche poco trasparenti e aiutare gli influencer a comprendere il proprio valore ed essere compensati equamente, con un focus sulle minoranze black e LGBTQ+. “Spesso, anche i maggiori brand non consentono agli influencer di negoziare i cachet, non offrono loro un contratto e non pagano in tempo”, spiega a Vogue Business Nicole Ocran, influencer e co-fondatrice di TCU.

La sua storia è un emblema di quanto l’industria avesse bisogno di essere regolata: durante un viaggio stampa, confrontandosi con le altre influencer presenti, ha realizzato di essere stata pagata meno rispetto alle colleghe bianche per essere lì. “Mi sono sentita quasi in debito per essere stata inclusa, ma in realtà ho lavorato tanto duramente quanto le altre”, racconta Ocran.

Entrambi i sindacati si configurano come associazioni non-profit che agiscono da ponte tra la comunità di creator e le aziende, fornendo valutazioni economiche chiare e supporto legale e contrattuale per negoziare i compensi degli influencer e accrescere i loro brand. Questo perché, conferma Maddie Raedts, fondatrice dell’agenzia di influencer marketing globale IMA, “Lavorando spesso senza contratto le influencer non hanno alcun tipo di protezione e salvaguardia nei confronti di pagamenti e proprietà intellettuale”.

Quello che emerge nitidamente dai manifesti dei due sindacati è la necessità di riconoscere quella dell’influencer come una professione fatta e finita, con tutti i diritti e i doveri che ne conseguono: “Avere delle regolazioni standardizzate può solo elevare l’industria”, spiega Raedts. Per entrambe, il mantra è solo uno: l’unione fa la forza. Tradotto: più persone si iscriveranno ai suddetti sindacati e più questi acquisiranno autorevolezza e saranno rispettati. E chissà che in futuro non vedremo comparire anche “influencer” alla voce “professione” sulla carta d’identità.

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