Avevano ragione i “buonisti” – Cartoline dalla quarantena

Renato Polizzi

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Avevano ragione i “buonisti” – Cartoline dalla quarantena

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sabato 25 Aprile 2020 - 09:52

In questi giorni mi è venuto in mente quello chescrisse italo Calvino, nella presentazione de “Il sentiero dei nidi di ragno”, per descrivere il clima del dopoguerra: “Quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale […] Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre riflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile- che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione […] ci si strappava le parole di bocca”.

Ecco, finita quest’emergenza, se vogliamo uscire il più velocemente possibile dalla crisi economica e sociale che ci aspetta proprio sullo zerbino di casa, dobbiamo essere bravi ad agire insieme, come comunità. E per farlo, come prima cosa, dobbiamo ricostruire un linguaggio comune.

Abbandonare le nostre incerte riflessioni individuali per dare ascolto e voce alla “voce anonima dell’epoca”.

In questi ultimi venti anni – anche se il processo per i sociologi ha origine agli inizi degli anni sessanta – rispondendo a vari impulsi, quali la mercificazione dei rapporti e l’omologazione culturale, la fine delle ideologie e la globalizzazione, abbiamo assistito ad una vera e propria svolta antropologica che ha visto frantumarsi lo specchio delle affinità e delle identità di massa e ha trovato il suo coronamento ideologico nella rivoluzione tecnologica della Silicon Valley degli inizi del XXI secolo.

È da allora, insomma, che abbiamo abbandonato le piazze per rinchiuderci dietro i nostri schermi, ognuno in preda alle nostre “incerte riflessioni individuali” e, per quanto la realtà che vivevamo era comune, il racconto si è frantumato in milioni di frammenti, di bit, di euforie e frustrazioni personali, facendoci perdere la visione d’insieme.

A ricomporre questo quadro fatto di racconti individuali, dandoci una parvenza di unità, sono rimasti gli algoritmi che governano il web secondo meccanismi che ci sono sconosciuti. E così, in contrappasso a quel mondo senza “limiti” o “illimitato” e “all inclusive”, dove immaginare è già potere – “Immagina, puoi” ci diceva George Clooney – che solo le offerte telefoniche promettono, ci siamo ritrovati soli, sempre più soli a cercare di dare un senso a tutto quello che ci succedeva attorno.

Lo abbiamo fatto avvinghiandoci sempre più alle nostre tastiere e affacciandoci dai nostri monitor come da un ponte di comando da cui mettere ordine alle nostre vite. E non riuscendoci abbiamo iniziato a sputare sentenze e a schiumare di rabbia e di euforia sui social.

Un’euforia cattiva, catturata una volta per tutte da Vicinio Capossela nella canzone “La peste”, dedicata alla “peste virale” che corre nella rete e “tutti ci fa liberi/tutti ci fa uguali”, in un verso in cui sulle note di “Let’s twist again” canta “Let’s tweet again/ Let’s tweet again/ Let’s tweet again”.

Un’euforia cattiva che si riempie la bocca di parole come “condivisione” e “umanità”, mitizzandole e quindi svuotandole di significato.

Condividere ha sempre voluto dire suddividere fra più persone ciò che si possiede. Con-dividere, dividere con.

Condividendo ci si privava di qualcosa in favore di altri. Oggi condividere vuol dire innanzitutto “invadere le vite degli altri” con immagini della propria. E, spesso, condividiamo materiale scadente – meme, catene, fotografie sfocate – o momenti della nostra vita che in altri tempi ci sarebbero apparsi insignificanti – piatti che si stanno mangiando, panorami, percorsi di jogging. In una continua ricerca di senso e di consenso sulla bontà della vita che conduciamo che viene misurata in “like”.

La condivisione, ancor più della comunicazione, – ci spiega il sociologo Ricolfi – è la marca distintiva dell’individualismo nell’era di Internet: “ciò che potrebbe apparire vanità, ostentazione, esibizione, fastidiosa interferenza, indebita intrusione, nel registro della condivisione esce trasfigurato come premura, partecipazione, socialità, donazione di sé”. Il nostro posto nel mondo, il nostro status, è perimetrato dai like che riusciamo a prendere sui social. Il prezzo da pagare è cedere sempre più fette della nostra privacy e ci è sembrato ne valesse la pena.

E anche della parola “Uomo” ne abbiamo fatto un feticcio, un’astrazione filosofico-morale, da tenere lì nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. È come se la nostra missione si fosse compiuta avendo censito “l’umanità” come categoria linguistica all’interno dei nostri codici. Nello stesso tempo, però, l’abbiamo esclusa dal nostro orizzonte storico, come non fosse più un oggetto su cui e per cui lavorare. Tolto l’Uomo dall’orizzonte nel Novecento, nel duemila, a rimanere inquadrato, è rimasto l’uomo. E si fa i selfie con la bocca a culo di gallina. Per poi condividerli.

Ma, come dicono i versi di una bellissima poesia di Vazquez Montalban, una volta in mezzo alle macerie di senso in cui siamo immersi, “lungo le navate della vuota cattedrale […]” sappiamo “che l’uomo è la misura di tutte le cose/ piccole.”

E così, noi piccoli uomini alla tastiera, ci siamo proclamati centro e metro del mondo.

Ma a quelli che erano puntini divisi e lontanissimi, messaggi in bottiglia lanciati a casaccio nella rete, bit, ci hanno pensato gli algoritmi a dargli un senso, ad inserirli in un quadro, a costruirci sopra una rappresentazione e, quindi, una possibile rappresentanza. E questo perché, come ci avvertiva Michel Foucault, “i numeri mirano a guidare i comportamenti”, specie se lasciati liberi di agire. Abbiamo lasciato che fossero gli algoritmi a raccogliere “la voce anonima dell’epoca”.

Ed è così che ci siamo lasciati prima della quarantena: con un dibattito pubblico in cui il “ribellismo molecolare” dei singoli cittadini veniva organizzato e quindi reindirizzato dagli algoritmi che guidano il web a favore di quelle forze politiche capaci di destreggiarsi all’interno della rete, facendone propria la regola numero uno: a contare non è il contenuto, ma il mezzo.

Anzi: il contenuto è il mezzo stesso.

A quel punto è stato facile per alcuni partiti cavalcare le paure e le frustrazioni dei singoli per farle diventare massa critica sulle cui istanze basare una proposta politica antiumanitaria, antiecologista, antisolidale.

È stato facile dire al piccolo uomo dietro la tastiera che non esisteva l’Uomo, non esisteva l’Umanità, non esisteva il Pianeta, non esisteva l’Europa, non esistevano i Diritti Universali. È bastato fare concentrare il piccolo uomo sulle uniche realtà tangibili di cui è fatta la sua quotidianità: esistono solo le bollette, le tasse, il bollo dell’auto da pagare e la seconda casa, le vacanze brevi, l’auto, i consumi da difendere. Solo queste ultime sono realtà inconfutabili e ci richiamano a delle responsabilità concrete.

Il resto sono solo fantasie da “buonisti”.

E, per rafforzare questo punto di vista, non hanno avuto bisogno di dichiararsi antidemocratici, razzisti, contro il pianeta. La loro è una “malvagità basata sulla distruzione della bontà”, ci dice ancora Vazquez Montalban, parlando in forma di riflessione e farsa contro “la normalità”.

Oggi, dopo l’emergenza scatenata dal virus, però, non è più possibile dire che non crediamo che il nostro comportamento come singoli possa cambiare il mondo che ci circonda, migliorare la vita degli altri e nostra, o peggiorarla, salvare persone e animali, salvaguardare il pianeta.

Non c’è più bisogno di fare uno sforzo di fantasia per capire che una nostra scelta può essere direttamente collegata allo scioglimento dei ghiacciai, all’annichilimento di intere specie animali e vegetali, alla miseria di intere popolazioni in altre parti meno fortunate del pianeta.

“I buonisti” avevano ragione, insomma, l’hanno sempre avuta. Anzi, se è vero che le ragioni della “malvagità si basano semplicemente sulla distruzione della bontà”, possiamo dire che i buonisti non esistono, esistono i buoni. Esiste chi fa del bene.

Invece esistono i cattivisti: sono quelli che, pur non facendo propriamente del male, non solo non sono disposti a fare del bene, ma non accettano che ci siano altri disposti a farlo. Sono la nostra cattiva coscienza. Sono loro che inquinano la comunicazione, sono loro che rendono difficile costruire ponti, fare rete, sono loro che inquinano i pozzi del dibattito pubblico. Sono loro e le loro lagne prive di immaginazione che dobbiamo mettere da parte. Ora che stiamo per uscire da un’esperienza che non ha risparmiato nessuno, dovremmo avere il coraggio di sentirci depositari di un senso della vita come di qualcosa che può ricominciare da zero.

Ci tocca pensare in grande. Stavolta non abbiamo scuse.

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