Nascere al tempo del Coronavirus: un appello pubblico per ripristinare i diritti negati

Vincenzo Figlioli

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Nascere al tempo del Coronavirus: un appello pubblico per ripristinare i diritti negati

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domenica 05 Aprile 2020 - 11:55

Ci sono momenti, nella storia di ognuno di noi, in cui la vita pubblica può incontrare quella privata. A me è successo esattamente due settimane fa. Sabato 21 marzo, intorno alle 4 del mattino, ho accompagnato mia moglie all’ospedale “Sant’Antonio Abate” di Trapani. Le contrazioni erano iniziate già da qualche ora e i segnali del parto imminente c’erano tutti. Un momento atteso con trepidazione per 9 mesi, immaginando di viverlo assieme, come una coppia, esattamente come avevamo fatto per la nascita del nostro primo figlio. Stavolta, piuttosto, la consapevolezza acquisita nella prima esperienza ci aveva portati a ragionare molto di più sulle pratiche da utilizzare durante il travaglio, con la possibilità, peraltro, di poter sperimentare un reparto più moderno e attrezzato dopo il restyiling di qualche anno fa. L’emergenza Coronavirus ci aveva però già avvertito da giorni che ben poco di quello che avevamo immaginato sarebbe stato realizzabile: all’ospedale di Trapani, come in gran parte dei nosocomi italiani, non è infatti consentito al padre di assistere la propria compagna durante il travaglio, né di essere presente al parto. Ma non basta: il papà non può neanche andare a vedere il figlio (o la figlia) dopo la nascita, perchè l’accesso all’ospedale è consentito solo al personale sanitario e ai pazienti. Con un’apposita circolare, sottoscritta la seconda settimana di marzo, si è infatti deciso di limitare la presenza di accompagnatori solo alle situazioni in cui sia strettamente necessario. Ed è qui che diventa interessante ragionare sul concetto di “strettamente necessario”: evidentemente, secondo un’interpretazione alquanto estensiva, va applicato anche alle situazioni correlate al parto.

Quindi, ricapitolando, i papà svolgono in questa fase un ruolo paragonabile a quello dei tassisti: accompagnano le compagne partorienti al pronto soccorso ospedaliero, le vedono entrare (con un certo magone) nella tenda blu del pre-triage da cui passano tutti i pazienti, compresi i sospetti Covid-19, e una volta accertato che verranno effettivamente ricoverate, lasciano borse e trolley a un’infermiera di turno e vanno via. Avranno notizie telefoniche dalla moglie finchè possibile, poi qualche ora di silenzio e, infine, un messaggino di un numero che non conoscono comunicherà loro che il bimbo è nato e la mamma sta bene. Un’emozione tanto potente quanto sorda. In tempi normali, se se la sente, un papà ha la possibilità di essere presente fino alla fine e di vivere una delle emozioni più grandi della sua vita nel momento in cui può prendere in braccio il neonato appena venuto alla luce, stringerlo al proprio petto e, in alcuni casi, tagliare il cordone. Al tempo del Coronavirus, tutto questo non accade.

Si fa presto a dire, “l’importante è che tutto sia andato bene”. Ma è chiaro che in un contesto di gioia quale comunque è sempre la nascita di un bambino, tutto ciò rappresenti un ferita per una famiglia, un diritto negato che mai verrà risarcito.

I giorni successivi sono scanditi da telefonate, videochiamate e foto (benedetto whatsapp…) che costituiscono almeno un piccolo surrogato di quello che sarebbe dovuto accadere. Dopo tre giorni (quatto in caso di cesareo) il padre si rimette in macchina, va a prendere la moglie e finalmente può vedere di presenza il figlio (o la figlia). Non prima, naturalmente, di essere passato anche lui dalla tenda blu del pre-triage, per il solito protocollo preventivo dettato dall’emergenza Coronavirus.

Alla madre, naturalmente, va peggio. Affronta il travaglio senza il conforto del proprio compagno, partorisce senza poter volgere lo sguardo verso di lui e, soprattutto, non può contare sull’assistenza notturna di un’amica o di una familiare. Certo, ci sono le infermiere, il personale medico, che garantisce professionalità e supporto emotivo (per quanto possibile) e che merita rispetto e gratitudine. Ma è un’altra cosa…

Sono tante le famiglie che si stanno misurando con questa situazione nelle ultime settimane. Basti pensare che ogni giorno, in Italia, nascono mediamente circa 1200 bambini. Di fronte al dramma di chi piange i propri cari a causa del Coronavirus, può apparire tutto secondario. Del resto, l’intento di questa testimonianza non è quello di criticare chi ha disposto misure emergenziali così severe. Tuttavia, ritengo che a un mese dall’inizio dell’emergenza si possa avviare un ragionamento diverso, immaginando che le disposizioni precauzionali messe in campo possano protrarsi a tempo indeterminato. Rivolgo quindi un appello alle istituzioni preposte affinchè, a tutti i livelli, possano prestare la dovuta attenzione a questo tema, immaginando si possano apportare dei correttivi al modello attualmente vigente. A partire dalle madri, che avrebbero diritto a un pre-triage alternativo (un’ulteriore tenda, un passaggio diverso) per potersi avvicinare al parto con maggiore serenità. Mi piace pensare, poi, che quel concetto di “strettamente necessario” legato alla presenza di un accompagnatore in ospedale in alcuni casi particolari possa essere esteso anche ai papà, per consentire loro di assistere al travaglio e al parto, esercitando un diritto che non dovrebbe mai essere negato. Così come andrebbe considerato “strettamente necessario” anche il supporto di una persona di famiglia che assista la mamma durante le notti dopo il parto, in modo che possa essere accompagnata nell’accudimento del nuovo nato.

In un momento in cui si combatte strenuamente per salvare dalla morte tante persone colpite da questo terribile virus ritengo che si possa anche dedicare una maggiore cura verso chi, in altro modo, porta avanti un messaggio di vita e di speranza, che in un tempo così difficile può davvero costituire una base preziosa da cui ripartire per disegnare l’avvenire della nostra comunità, che per resistere emotivamente (oltre che fisicamente) alla pandemia ha un disperato bisogno di cominciare a guardare la propria vita dopo il Coronavirus. E mettere al mondo un bambino, in questo tempo carico di interrogativi e angosce, è una delle più grandi forme di resistenza e fiducia nel futuro che si possano immaginare.

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