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martedì 03 Marzo 2020 - 12:00

È venerdì mattina. Sono stanca e assonnata. La notte precedente mia figlia ha avuto la febbre alta e ho trascorso le mie ore fra una Tachipirina e l’altra.
È venerdì mattina. Sono stanca e assonnata. Ho contrazioni sempre più forti e, dentro di me, ho la certezza assoluta che questo sia il “mio” giorno. Varco la porta del reparto di ostetricia e maternità con la consapevolezza che io da lì ci sarei uscita solo con la mia neonata in braccio.
Appena entrata, una sensazione mi inebria il cervello. È come se tutto lì dentro fosse donna. Come se gli odori, i colori, i volti umani delle persone incontrate lì avessero voglia di gridare al mondo quanto potere ci stia tutto lì intorno. Vedo i visi delle partorienti stanche, ansiose di tenere in braccio i loro bambini, fra una camminata e l’altra nei corridoi del reparto, in pigiama mentre massaggiano il pancione per le ultime volte. Nella sala tracciato, proprio lì accanto a me, sento il suono di un cuoricino battere, forte come un tamburo durante la processione del giovedì santo. Una mamma, prossima a diventare ormai nonna, sospira in attesa che il dottore esca dal blocco parto con buone notizie sulla figlia e il nipotino. Un uomo entra di fretta con un foglio di ricovero in mano. È giunta l’ora per sua moglie di raccogliere tutte le sue forze e mettere al mondo il loro bambino.
Ci sono donne anziane. In fila per una visita, per un’operazione, per un banale controllo. Ad una di loro devono scucire dei punti, ad un’altra è stato asportato un fibroma all’utero. Sono tutte in attesa del loro turno e mi guardano silenziosamente mentre io cerco di controllare la respirazione, in attesa di un nuovo tracciato.

I dolori diventano sempre più insistenti, misuro tempo ed intensità di ciascuna contrazione, consapevole che il peggio deve ancora arrivare. I dottori non mi danno certezza, ma io comunque avviso mio marito di mettersi in macchina, affrontare due ore di viaggio e venire da me, perché tanto “io oggi partorirò”.
Le ore passano e quella sensazione di maternità, di sacrificio, di vita è sempre più forte. Nei volti delle dottoresse, delle ostetriche, delle infermiere, vedo tutta la comprensione ed il supporto che da donna a donna è possibile infondere. Persino gli uomini, che potrebbero non comprendere quelle sofferenze, sembrano donne. Il loro tono è pacato e i loro gesti sono delicati. E anche se appartenenti ad un universo parallelo, la loro presenza lì è quasi giustificata da tutti quegli anni di studio e da tutte quelle competenze. Ed è così rassicurante che risulta gradita.
Sento le urla di una donna in travaglio e penso che, da lì a poco, toccherà a me. Mi sento forte e non ho paura. Ma sono consapevole di quanta sofferenza ci sia dietro ad un parto. E questa consapevolezza richiede tanto coraggio, un coraggio che da qualche parte devo pur trovare.
Mi offrono un letto e una camera dove poter affrontare il mio travaglio in solitudine, accendo il mio iPhone e metto su la voce di un tizio che dovrebbe infondermi calma e rilassamento. “Il mio corpo è caldo, io sono calmo. Il mio braccio destro è caldo, io sono calmo. Il mio braccio sinistro è caldo. Io sono calmo.” Mi invita ad immaginare il mio corpo che galleggia sul mare, sereno, sotto i raggi del sole. E mentre il tizio continua a parlare, i dolori del ventre sono sempre più forti e avrei tanta voglia di gettare il telefono in aria e dire a questo signore qui che lui non ha nemmeno idea di cosa significhi far nascere un bambino e che non è in diritto di dirmi come mi devo sentire e dove mi devo immaginare. Ma, ovviamente, di tutti i miei dolori lui non ne ha colpa o responsabilità.

Più volte mi dico che avrei preferito un cesareo, una epidurale, un gas analgesico, una qualsiasi alternativa a quel dolore lì. Ma, a quanto pare una alternativa non c’è. Il dolore è mio e me lo tengo io.
Lo condivido con me mio marito e i miei cari e quasi mi dispiace vederli lì preoccupati per me. Io che mi concentro soltanto a respirare e non ho più la forza di rispondere ad alcuna domanda, se non con piccoli ed incomprensibili gesti.
Penso all’altra mia figlia, a casa con il nonno. Il suo pensiero mi dà la forza per affrontare le contrazioni e sopportare quel dolore indescrivibile, mentre io vorrei lacerarmi lo stomaco e liberarmi di quella sofferenza.
Il 21 febbraio alle 17.18, in una giornata di sole e scirocco leggero, nasce mia figlia. Ancora una volta, il potere e la forza della natura si sprigionano nel mondo, con una energia ed una intensità appartenenti ad un progetto più grande, universale, cosmico, di cui io, con il mio corpo e il mio dolore, sono solo un mero e semplice strumento.

Il 21 febbraio alle 17.18, sotto gli occhi di una ostetrica comprensiva e un ginecologo attento, seguita da un entourage sorridente e premuroso, nasce mia figlia e, per un giorno, mi sento come Madre Natura. Non è certamente il giorno più bello della mia vita. O il più divertente. O il più sereno. Mi piace pensare che questo debba ancora venire. Ma oggi vedere le mie due bimbe tenersi mano nella mano è certamente un’immagine che lascerò impressa per sempre nella mia mente.

Michela Albertini

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