La Sicilia in tv

Vincenzo Figlioli

Marsala

La Sicilia in tv

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martedì 08 Ottobre 2019 - 07:15

Parlatene di Sicilia. Parlatene spesso, in radio, in tv o sui giornali. Ma fatelo bene. Serve a poco inscenare teatrini, come settimanalmente fa Massimo Giletti a “Non è l’Arena”. Anzi, è controproducente. Anche questa settimana, il copione è stato lo stesso di sempre: un ex presidente “rivoluzionario” (Crocetta), che ormai somiglia a un pugile imbolsito, malinconicamente avviato verso il tramonto; un intellettuale lucido e autorevole (Buttafuoco) i cui moniti sui danni dell’autonomia continuano a restare inascoltati; il rappresentante per eccellenza della “casta” post democristiana in Sicilia (Miccichè) con cui il conduttore ama polemizzare a distanza; un imprenditore del Nord, convinto che non servano investimenti economici al Sud (tale Brambilla della Brianza); un imprenditore del Sud (Salvatore Ombra) che prova a raccontare le difficoltà reali con cui si confronta chi vuole fare impresa da Napoli in giù. Immancabile, poi, l’ennesima storia di sprechi in cui la forma sovrasta la sostanza (la vicenda delle nuove divise degli usceri della Regione).

Si spegne la tv, con la sensazione che i settentrionali continueranno a pensare che la Sicilia sia male amministrata e che i siciliani facciano poco per avere una classe dirigente migliore, mentre i meridionali continueranno a pensare ai danni recati al Mezzogiorno dall’Unità d’Italia e a maledire Cavour. In tutto ciò, con ogni probabilità, Giletti e il suo staff si compiaceranno ancora una volta dei dati di ascolto della puntata, immaginando un nuovo capitolo in cui, agli habitué Crocetta e Miccichè, verranno affiancate nuove figure, utili per il completamento del copione sopra citato. E tutto ciò, al netto di chi, con le migliori intenzioni, accetta di passare dalle forche caudine dell’Arena per provare a portare avanti un ragionamento serio. Perché, per la tv italiana, il Sud continua ad essere un’area geografica dal fascino quasi esotico, da raccontare attraverso determinati stereotipi. Le storie del Sud hanno fatto vincere premi Nobel e Oscar al nostro Paese, hanno disegnato un certo immaginario italiano, suggestivo quanto contraddittorio, tra miseria e nobiltà, ignoranza e cultura, amore per la famiglia e incuria per il bene pubblico. Ma un viaggio da Marsala a Palermo in treno che dura più di quattro ore (e altre cinque ne occorrono per giungere a Siracusa) non è una tradizione o un elemento del folklore locale, ma una vergogna nazionale che dovrebbe essere vissuta come un’emergenza dalla classe dirigente nazionale. Se ciò non accade, la colpa non è soltanto dei politici che hanno fatto male il loro dovere. La responsabilità è anche di quel giornalismo che ripropone stancamente il solito stereotipo dei gattopardi, rinunciando a una narrazione diversa delle comunità siciliane. Un giornalismo pigro e superficiale, che si nutre di clichè e che poco (o nulla) fa per sostenere le istanze di cambiamento che, nonostante tutto, continuano a diffondersi al Sud. Succedeva ai tempi di “Samarcanda”, ma quella era davvero un’altra storia.

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