Totò Riina è malato e vuole morire a casa sua. La novità delle ultime ore è che il desiderio del boss corleonese, da 24 anni in carcere, potrebbe essere esaudito. La Cassazione ha infatti sorprendentemente aperto al differimento della pena per Riina, sottolineando che il “diritto a morire dignitosamente” va assicurato ad ogni detenuto. La stessa Corte si mostra inoltre dubbiosa sulla possibilità che l’86enne Riina possa ancora essere considerato un pericolo, considerata l’età e le gravi patologie da cui è affetto. Toccherà al Tribunale di Sorveglianza di Bologna pronunciarsi in via definitiva sull’istanza di differimento della pena avanzata dall’avvocato di Riina, giudicando se lo stato di detenzione carceraria comporti “una sofferenza ed un’afflizione” che si pone al di là della “legittima esecuzione di una pena”. Restando su un piano strettamente tecnico, la questione effettivamente ha un suo fondamento: uno dei principi cardine della giurisdizione penale è infatti l’umanità della pena. Ed è proprio su questo che si concentrano le valutazioni della Cassazione, secondo cui occorre adesso ragionare se il mantenimento in carcere di un “ultraottantenne con duplice neoplasia renale e stato neurologico altamente compromesso” sia compatibile con il rispetto del principio di umanità della pena.
Autore e mandante di un numero imprecisato di omicidi oltre che delle più sanguinose stragi di mafia, dopo 24 anni di latitanza Totò Riina è stato arrestato il 15 gennaio del 1993. Da allora ha passato il resto della sua vita in carcere, in regime di 41 bis, senza mai aver dato segnali di pentimento o essersi mostrato disponibile a collaborare con la giustizia. Attualmente è detenuto presso il penitenziario di Parma.
Vale la pena citare qui anche un precedente, nemmeno troppo lontano nel tempo, riferibile a un altro boss corleonese, Bernardo Provenzano. Per tre anni i suoi legali e i familiari ne avevano chiesto la scarcerazione o la revoca del carcere duro, in considerazione delle gravi condizioni di salute in cui si trovava. Tuttavia, fino a due giorni prima del decesso di Provenzano, il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva respinto le suddette richieste. “Qualora non adeguatamente protetto nella persona” e “trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica”, a detta il giudice i suoi trascorsi e il suo percorso criminale lo avrebbero esposto ad “eventuali ‘rappresaglie’ connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso” di cui è stato “capo fino al suo arresto”.
Sarebbe dunque difficile immaginare per Riina un trattamento diverso da quello ricevuto da Provenzano.
Come spesso accade, naturalmente, l’opinione pubblica si sta dividendo in maniera netta tra i due orientamenti: c’è – anche giornalisti e magistrati – chi ritiene che lo Stato debba mostrare anche verso i mafiosi quella pietas che i mafiosi non hanno mostrato verso le proprie vittime o i loro familiari; e chi, invece, ritiene che in mancanza di determinate condizioni, un capomafia crudele e sanguinario come Riina non meriti alcuna indulgenza.
Nettamente contrario a un ridimensionamento della pena il procuratore Nicola Gratteri, secondo cui “un boss come Riina comanda anche solo con gli occhi”.
“Sul caso Riina bisogna evitare di dare messaggi sbagliati – ha affermato il senatore Beppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia -. È chiaro a tutti che il diritto alle cure mediche non può essere negato a nessuno, Riina compreso, ma da qui a tirar fuori un profilo quasi pietoso del boss ce ne passa. Il sistema carcerario italiano è in grado di garantire le cure necessarie ai detenuti. Riina è un carnefice spietato e ancora pericoloso. Per cui è necessario non dare segni di debolezza che potremmo pagare amaramente. Non scordiamoci quanto fino a poco tempo fa egli sosteneva nei dialoghi intercettati in carcere dalla Procura antimafia. Dialoghi agghiaccianti nei quali il capo dei capi parlava di piani mafiosi e omicidi da compiere”.
“Quando un boss di mafia di questo calibro, capace di intendere e di volere, smette di essere considerato capo dai suoi sodali? – si chiede il deputato del Pd Davide Mattiello – Io credevo mai, ad eccezione di un caso: quando si possa considerare rotto il vincolo associativo e quindi attenuato il pericolo, perché il boss decide di collaborare con la magistratura e credevo che la pensasse così anche la Cassazione (cfr le sentenze recentemente richiamate nella proposta con la quale la DDA di Palermo ha chiesto misure di sicurezza per il Senatore D’Alì, considerandolo pacificamente un mafioso). Quando Riina si è pentito? Quando ha deciso di collaborare? Devo essermi perso qualcosa”.