In Italia, si sa, l’unica grande religione di Stato è il calcio. Tuttavia, di tanto in tanto, le attenzioni generali si accendono anche per altri sport di squadra (basket o pallavolo) in coincidenza di Europei, Mondiali o Olimpiadi. Più raramente ci si entusiasma per gli sport individuali, a meno che non sbuchi qualche fenomeno capace di tirar fuori un exploit inatteso o un filotto di risultati straordinari. E’ successo con lo sci ai tempi di Alberto Tomba, con l’atletica quando c’era Pietro Mennea o con il tennis negli anni di Adriano Panatta. E continua a succedere con Valentino Rossi nelle moto o con Federica Pellegrini nel nuoto.
Passata la sbornia con l’esaltazione del fenomeno del momento, siamo però tornati ad inanellare prestazioni mediocri e il pubblico ha ripreso a seguire distrattamente sci, atletica e tennis, in attesa di un nuovo Messia. Perché in Italia non si riesce a costruire intorno a un campione un movimento radicato, capace di prolungarne nel tempo i successi. Non si riesce a pensare a una programmazione di lungo periodo. E questo vale nello sport, come nella politica.
La vittoria agli Us Open di tennis di Flavia Pennetta in una storica finale tutta italiana, però, fa parte di un’altra storia. Per certi versi, molto poco italiana. In questi anni, mentre il tennis maschile inseguiva inutilmente il nuovo Panatta senza raccogliere alcun risultato di prestigio, il movimento femminile è riuscito a costruire una generazione di atlete capaci di vincere la Federation Cup, di trionfare nei tornei più importanti o comunque di essere competitive contro qualsiasi avversaria. Francesca Schiavone, Sara Errani, Roberta Vinci e Flavia Pennetta da anni navigano tra le prime posizioni della classifica mondiale sia nel singolare che nel doppio. Dimostrando che anche in Italia, con un lavoro serio, si può andare oltre l’exploit isolato per raggiungere traguardi importanti, esattamente come avviene negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna o in Germania, paesi che hanno sempre dimostrato una cultura della programmazione di gran lunga superiore alla nostra.
I dirigenti del tennis italiano hanno adesso la responsabilità di non disperdere il patrimonio costruito in questi anni. Quelli che si occupano degli altri sport – atletica, nuoto, sci – dovrebbero invece cercare di far rivivere questo modello virtuoso anche in altre discipline, senza il timore di dover andare a battere cassa presso le istituzioni se si rendono conto di non potersi allenare adeguatamente perché le strutture e gli impianti sono inadeguati. Dovrebbe tenerne conto anche il Presidente del Consiglio: vada al di là del selfie con Vinci e Pennetta e in vista della candidatura dell’Italia alle Olimpiadi del 2024 convochi gli stati generali dello sport italiano per capire in che condizioni si trovano ad operare le federazioni delle diverse discipline. Ricordando che lo sport non è solo un passatempo domenicale destinato a un pubblico eterogeno, ma uno strumento formidabile per la crescita delle giovani generazioni e una vetrina internazionale da cui passa un pezzo importante dell’immagine di un Paese.