Mentre il mondo tiene gli occhi puntati – giustamente – su due guerre che da mesi spaccano in due la geopolitica, quella tra Russia e Ucraina e, soprattutto, quella tra Israele e Palestina, negli Stati Uniti l’attenzione mediatica si accende tutta sull’omicidio del repubblicano Kirk. Una morte violenta, un uomo controverso, fedelissimo di Trump. Un caso che ha riempito prime pagine e dirette televisive, di cui si è detto tutto e il contrario di tutto. Ma c’è un’altra barbara morte, accaduta settimane prima, che non ha fatto inizialmente rumore, quella di Iryna Zarutska. Iryna aveva 23 anni. Nel 2021 era fuggita dalla guerra in Ucraina con la sua famiglia. Avevano trovato rifugio in Carolina del Nord. Una vita semplice, fatta di lavoro, di ritorni a casa stanchi, di sogni da ricostruire lontano dalle sirene e dalle bombe. Aveva un fidanzato. Aveva una quotidianità.
Invece è morta così: su un autobus. Era seduta tranquilla, diretta a casa, quando un uomo – un senzatetto afroamericano di nome Decarlos Brown Jr., con 14 arresti alle spalle – si è alzato dal sedile dietro di lei e le ha puntato un coltello alla gola. Non c’è stato tempo per fuggire, per reagire, per capire. Iryna è scivolata via, morendo sul pavimento di un bus, senza un motivo, senza un perché. Eppure questi perché, ci perseguitano. Devono. Decarlos Brown non era stabile mentalmente. Usciva ed entrava dal carcere, viveva ai margini, un clochard dimenticato da tutti. In America, essere povero significa essere scartato dalla società più che in altri posti del mondo, essere un senzatetto significa essere invisibile. Nessuno lo ha salvato prima che diventasse pericoloso. Nessuno ha mai tentato davvero di recuperarlo. È uno scarto della società americana: quella frenetica, darwiniana, che ti vuole vincente già nei primi anni di scuola o ti abbandona ad un triste destino. Il fatto che Brown fosse afroamericano probabilmente pesa. Soprattutto oggi, nell’America post-George Floyd, dove ogni interazione razziale è una miccia accesa. Ma anche il profilo della vittima non è da trascurare: giovane, bianca, bionda, esile. Anche lei, in fondo, un’invisibile. Ma quella sera Brown l’ha vista. L’ha scelta.
Perché lei? Perché proprio Iryna? E’ solo un caso, perchè era seduta davanti a lui? Forse, nella sua mente sconvolta, Brown ha proiettato su di lei qualcosa. Un rifiuto? Una rabbia antica? Una donna bianca, un’immigrata che, a differenza sua – americano di nascita – era riuscita a trovare la sua fortuna? Sì, è quello che penso. Ma resta una domanda più grande. Una domanda che ci inchioda tutte e tutti: quante Iryna ci sono in giro? Quante donne possono morire così, scelte a caso da chi cova odio, da chi esplode per rabbia, solitudine o follia? Iryna posso essere io, potrebbe essere ognuna di voi. Iryna non è solo una vittima di cronaca, è il simbolo di una violenza silenziosa, casuale, non quella di cui si sente spesso nelle cronache, il bersaglio di una violenza domestica. No! Iryna è l’immagine di una società che non sa più riconoscere i fragili prima che diventino pericolosi. Di un sistema che lascia morire i più deboli due volte: prima nel silenzio della miseria, poi nell’assordante indifferenza della morte. E il paradosso più amaro è questo: Iryna è fuggita dalla guerra ma la violenza l’ha trovata dove si sentiva al sicuro. E quell’immagine che resta scolpita nella nostra mente, del volto della giovane pieno di paura che guarda la morte, non dobbiamo mai dimenticarlo. Non possiamo.