Abbiamo fallito tutti

Claudia Marchetti

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Abbiamo fallito tutti

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lunedì 11 Agosto 2025 - 07:00

Sara Campanella è morta a 21 anni. Cinque coltellate. Quelle al collo sono state mortali. A ucciderla è stato il suo ex fidanzato e collega di università, Stefano Argentino. Un femminicidio brutale, consumato con la rabbia e l’odio di chi non sa accettare la fine di una relazione. Un altro volto giovane tra le tante vittime di una strage silenziosa che da anni attraversa questo Paese. Stefano si trovava in carcere, in attesa della sentenza definitiva. Lì si è tolto la vita, in un momento di distrazione e assenza di sorveglianza. Il suo avvocato aveva chiesto una perizia psichiatrica, che è stata negata. Ora, la sua famiglia potrebbe chiedere un risarcimento allo Stato, per la mancata tutela del figlio detenuto. È ancora solo un’ipotesi, e indignarsi a priori potrebbe essere prematuro. Ma se davvero si dovesse avanzare una richiesta simile, allora sì, bisognerebbe indignarsi — non per odio, ma per questioni morali, etiche. Non si tratta di negare il dolore di una famiglia che ha perso un figlio. Ma c’è una linea sottile e netta tra il dolore e l’ingiustizia. La difesa dovrebbe consigliare alla famiglia Argentino di fermarsi.

Ancor più grave, se fosse confermato quanto emerso durante le indagini, che la madre di Stefano abbia tentato di aiutarlo a scappare dopo il delitto. Ma il punto non è solo questo. Il punto è che la giustizia, lo Stato, il sistema carceri, non hanno funzionato per nessuno. Non per Sara, che non ha avuto il tempo di salvarsi. Non per la sua famiglia, che non potrà mai vedere una condanna definitiva, né sentire pronunciare quella parola che, in certi casi, può valere come un minimo risarcimento simbolico: colpevole. Non per Stefano, che aveva 22 anni, abbastanza grande per sapere che uccidere è sbagliato, ma ancora giovane per poter essere rieducato, se solo il sistema avesse funzionato.

Perché è questo, il punto. Abbiamo fallito tutti. Non solo la famiglia di Stefano Argentino, ma ha fallito lo Stato, che non ha previsto una misura alternativa, una valutazione clinica, una cella dove vivere — non sopravvivere. Hanno fallito le istituzioni, la scuola, la comunità, che non hanno saputo dare a Stefano gli strumenti per riconoscere la violenza che forse aveva visto o subìto, per distinguere l’amore dal possesso, la rabbia dal rancore, il sentimento dal dominio. Ha fallito il sistema penitenziario, che oggi in Italia non è luogo di rieducazione ma spesso di disperazione, abbandono, violenza. Celle sovraffollate, condizioni igieniche precarie, bullismo e umiliazioni. E, soprattutto, solitudine. Troppa solitudine. La giustizia si è estinta. Non si celebrerà alcun processo. Non ci sarà alcuna sentenza. Ma questo non significa che sia finita qui. Serve riflettere, profondamente, su tutto questo. Perché a 22 anni ci deve essere ancora speranza. Perché non può morire la vittima, ma non può morire nemmeno il suo carnefice. Perché così, muore anche la possibilità del cambiamento. E senza cambiamento, questo sistema continuerà a produrre violenza, morte, e silenzi.

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