La Sicilia è un’isola che offre scenari culturali e antropologici in grado di emozionare e carichi di fascino. Culla di tante dominazioni, è punto di incontro di storie e miti, leggende e tradizioni sacre e profane millenarie, enigmi e misteri che affondano in un passato lontano e riaffiorano nella storia e nei nomi dei suoi luoghi, dei suoi monumenti, nelle sue feste religiose, nelle più profane credenze popolari. L’alta concentrazione di opere d’arte, la variegata umanità, il ricco patrimonio di letterati e santi, di filosofi e di scienziati, gli usi spesso retaggio di un passato ancestrale, il particolare senso della vita e della morte, la peculiare concezione della famiglia, il dialetto di cui si alimentò il volgare letterario delle origini, contribuirono ad aumentarne il fascino presso i viaggiatori stranieri che, tra il XVIII e il XIX secolo, ne fecero meta obbligata del Grand Tour.
In verità, la Sicilia entrò in ritardo tra le tappe dei viaggiatori stranieri, costituendo un’attrattiva per palati fini, a causa della sua posizione remota, difficilmente raggiungibile, all’alone di mistero e d’incognito che l’avvolge, all’ingente patrimonio artistico, all’antichità e consistenza delle sue tradizioni. È infatti solo a partire dal Seicento che la Sicilia diventò meta costante e non sporadica di viaggiatori tedeschi, inglesi, francesi, polacchi, rumeni che, attraverso il Gran Tour, si confrontarono con i grandi temi dell’arte e della bellezza. Senza i diari di viaggio dei viaggiatori stranieri, che guardarono con stupore i fenomeni che i siciliani danno per scontati, rimanendo a volte incantati, a volte inorriditi, ma sempre annotando le loro impressioni, avremmo una conoscenza limitata di un’isola che taglia in due il Mediterraneo e il cui destino storico è quello di essere crocevia di strade di mare, incroci di viaggi e approdi provvisori.
Luminosa e notturna, sotterranea e baciata dal sole, enigmatica e misteriosa, il suo fascino resiste nei secoli e se a tutto questo si unisce la maestosità delle sue caratteristiche ambientali, la bellezza del suo mare e delle sue montagne, la presenza del vulcano attivo più grande d’Europa, la bontà della sua cucina fortemente contaminata dai suoi invasori, si evince che la Sicilia offre uno scenario complessivo unico nel suo genere.
Ma come capire questa cerniera tra Oriente e Occidente? Chi ha creato questo immaginario sono stati Siculi, Sicani e poi Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli… che, succedutisi nell’isola e fusisi con l’elemento indigeno, hanno dato luogo alla cultura materiale e immateriale dei siciliani. Lo scrittore Gesualdo Bufalino scrive che “… ogni siciliano è, di fatto, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un’invidia degli dèi. Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l’amaro”.
I siciliani hanno edificato nei secoli un “tempio interiore” per decretare la propria rinascita sotto molteplici forme in una visione immobile del tempo, ossia la loro immortalità. È così che si spiegano le antefisse a maschera silenica cioè teste di satiro in visione frontale collocate in serie al limite orizzontale inferiore dei tetti di edifici sacri greci e sicelioti. Il satiro è una figura intermedia tra Dioniso e gli uomini e spesso è accompagnato da ninfe, loro complemento femminile legato all’acqua. Decorazioni di tetti di edifici sacri fatti di satiri, ninfe, in combinazioni con piante e fiori, rimandano alle forze vitali e feconde della natura: l’edificio che la comunità erige in onore delle proprie divinità viene assimilato a quanto vive e cresce nella natura. Per chi immagina il mondo come cosmo, cioè in termini mitici, il tetto del tempio diventa la zona di raccordo tra quelle forze e il cielo che manda l’acqua benefica, tra terra e cielo. La caratteristica più importante di questi visi in forma di maschera è quella di esprimere il paradosso di uno sguardo ineluttabile combinato con la non-tangibilità fisica di chi guarda. Lo sguardo dei satiri cui il visitatore del tempio si sentiva, dall’alto, esposto nel muoversi dentro il santuario gli faceva percepire, insieme ai propri limiti, l’incommensurabilità del divino. Allo stesso modo, la maschera gorgonica, terrificante e mostruosa, nel trasmettere il senso di una presenza incommensurabile, trascendente i limiti umani, incuteva timore e provocava un atteggiamento di devozione. La sua collocazione in alto, appropriata a un essere mitologico di valenza aerea come la Gorgone e in sintonia con l’idea che il tetto del tempio raccordasse la terra al cielo, cioè l’umano al divino, enfatizzava naturalmente tale effetto sullo spettatore.
Tenebra e luce, morte e rinascita. Di questo parlano le pietre, i monumenti, i culti, i riti, le leggende, le usanze e persino i dolci della Sicilia. Eraclide di Siracusa ricorda come nella città si preparassero focacce con sesamo e miele a forma di genitali femminili «che in tutta la Sicilia erano chiamate mylloi» confezionate e presentate a Demetra – dolente per la scomparsa della figlia Core rapita mentre raccoglieva gigli e fiori sulle rive del lago di Pergusa, nei pressi di Enna, dall’innamorato Plutone che, col suo carro trainato da cavalli, la condusse nelle profondità del Tartaro, «nel giorno culminante le Tesmoforie», un rito ctonio legato alla fecondità, imperniato sul ritmo stagionale, a cui partecipavano le sole donne sposate. Questi particolari dolci, forse poi deposti all’interno dei santuari, confermano i riferimenti alla sfera sessuale delle Tesmoforie in Sicilia. Di una analoga festa sacra, che prevedeva il trasporto di grosse pagnotte, ci informa Semo di Delo che ricorda l’esecuzione per le Tesmoforie di un canto popolare che invitava a «sbafare», approfittando dell’abbondanza e della fertilità di cui Demetra e Core erano le protettrici. Polemone riferisce che presso i sicelioti esisteva un santuario dedicato alla Golosità, e una statua di Demetra Cereale vicina ad una dell’Abbondanza.
Strano è il rapporto dei siciliani di oggi con la religione. Alcuni sono autentici credenti, altri sono atei. La maggior parte, però, consuma la propria fede nella pigra osservanza di norme comportamentali tramandate da generazioni per educazione e buona creanza, più che per rispetto a un Dio onnipotente. Così funziona per la religione pressappoco in ogni ambito del vivere quotidiano ma a tavola è tutta un’altra storia. Perché qui la devozione si unisce al mito e alla storia, sfiorando la superstizione. E allora succede che una semplice prescrizione alimentare diventi imperativo categorico e che intere città, da una parte all’altra dell’isola, si mobilitino nello stesso giorno per preparare lo stesso piatto, spinte da un sincero quanto goloso sentimento religioso. Una fede tanto concreta che si può mangiare, giusto per fare un esempio, come nel caso dei fertili chicchi di grano cotto, sciorinati come grani di rosario e poi uniti alla crema di ricotta, spolverati con cannella e cioccolato fondente tritato: la cuccia.
La morfologia delle focacce consacrate secoli fa dagli antichi Sicelioti a Demetra, nella sua simbologia sessuale, si connette ai riti propiziatori per la fertilità e la buona annata e da esso derivano diversi biscotti ancora oggi confezionati, come quelli di san Martino, rituali per l’11 di novembre a Palermo e Monreale e che si è soliti inzuppare nel vino Moscato. La forma è tondeggiante e richiama un po’ un’arancia; l’aggiunta nell’impasto di semi d’anice conferisce loro un sapore e un profumo particolari. La cottura avviene a fuoco lento, per un risultato molto croccante e friabile e la fantasia dei pasticceri palermitani ha dato vita a versioni arricchite da ricotta, marmellata, pasta reale, canditi e qualsiasi tipo di leccornia. Con la festa di San Martino, il cui culto arrivò in Sicilia con i Normanni, si conclude tradizionalmente l’infinita estate siciliana. Altri biscotti sono ormai quasi del tutto scomparsi, come i prucitani di Comiso, allusivi biscotti oblunghi a forma di due labbra divise, un regalo che un tempo le mogli facevano ai mariti in occasione del Natale.
Partecipi di questo universo, i siciliani hanno sempre esorcizzato e deriso il senso di morte che aleggia nell’isola. Giovanni Falcone arrivava a praticare l’ironia e l’autoironia per tenerlo lontano: «Il pensiero della morte – disse alla scrittrice Marcelle Padovani – mi accompagna ovunque. Ma, come afferma Montaigne, diventa presto una seconda natura… si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare».
«Terribile» è la morte per Leonardo Sciascia, ma «non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora in balìa dei mutevoli pensieri di coloro che restano». In Sicilia, a Palermo in particolare, i morti non si celebrano ma si festeggiano. Il 2 di novembre arriva la Festa dei Morti: una Befana anticipata. Sono i morti, nell’immaginario infantile, a deporre i doni sulla tavola imbandita con frutta di marzapane, noci, castagne, melograni e «la pupa di zucchero»: l’Orlando con lo scudo per i bambini, la bella Angelica per le bambine. I morti passano, accarezzano, baciano nel sonno, sussurrano, lasciano doni… Qui in Sicilia addomestichiamo la vertiginosa distanza tra vivi e morti e abbiamo fede che essi siano qui, oltre la morte, oltre indicibili confini, altro da noi, eppure ancora con noi. È il lascito e il monito della nostra cultura: esplorare in quella misteriosa distanza il senso della vita e di ogni racconto.
[ Manuela Randazzo ]