Lettera da un letto d’ospedale…

Claudia Marchetti

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Lettera da un letto d’ospedale…

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giovedì 04 Dicembre 2025 - 07:07

Sono qui, immobile in un letto dell’ospedale di Marsala, con una gamba rotta che pulsa. E’ un dolore insopportabile. Aspetto un intervento che slitta di giorno in giorno, perché prima di me ci sono i casi urgenti. Dicono che non possono far entrare i familiari. Misure anti-Covid rigorosissime che perdurano. Restano solo i parenti o gli assistenti delle persone più fragili. Ho un cellulare, un libro che sfoglio più che leggere e la compagnia casuale di chi divide la stanza con me. Ogni tanto gli infermieri arrivano gentili, altre volte sbuffano, rispondono nervosi. Li capisco ma solo in parte. Lavorare qui dentro dev’essere come vivere in un frullatore emotivo: richieste incessanti, dolore, urgenze, ansie. Ma questo non cancella il fatto che anche noi pazienti siamo impauriti e stanchi. Forse, se gli ospedali avessero più personale, più turni umani, più supporto psicologico… più…

Stamattina il medico è passato con gli stessi vestiti della sera prima, quando l’avevo intravisto in corridoio. Le occhiaie raccontavano la verità che le parole non dicono: ha fatto la notte in Pronto Soccorso, e ora passa per le visite prima di tornare a casa. Le notti sono un inferno: campanelli che suonano senza sosta, lamenti, urla improvvise che ti svegliano di colpo. La prima notte ho avuto la gola così secca. Quando ho chiesto dell’acqua, mi hanno risposto: “Non ne abbiamo, solo ai pasti”. È una frase che non dovrebbe esistere in un ospedale, e invece eccoci qua. La mattina dopo ho chiesto ad una signora che assiste un altro paziente di comprarmi gentilmente una bottiglietta al distributore. Un fatto che mi ha dispiaciuto e un pò reso vulnerabile. È così che funziona: ci si salva tra pazienti, tra sconosciuti, tra persone che condividono la stessa impotenza. Ho chiesto un cuscino, una notte. È arrivato dopo quattro ore. Troppo tardi per aiutarmi a dormire.

Eppure, mentre sto qui, a volte sento gli infermieri e gli OSS ridere nelle loro stanze. Non mi infastidisce, ma vorrei solo che, dopo quelle risate necessarie, ricordassero che noi dall’altra parte continuiamo ad aspettare, in equilibrio instabile tra dolore e solitudine. Vorrei che questo posto, inevitabilmente duro, potesse essere almeno un po’ più accogliente. Che non fosse solo un luogo dove si sopravvive mentre si aspetta una firma, un intervento, un referto. Guardo fuori dalla finestra e vedo le Egadi, lontane, il mare quieto. Dovrebbe confortarmi, ma non ci riesce. La mente è troppo piena di rumori e di pensieri. Apro i social per distrarmi e leggo di scandali nella sanità trapanese e siciliana, inchieste, corruzione, ritardi negli esami istologici che diventano diagnosi arrivate troppo tardi, persone che muoiono non solo per la malattia, ma per il sistema. Ma leggo anche di medici che pagano le conseguenze di una politica che li usa come pedine, infermieri logorati, reparti che crollano sotto il peso di tutto ciò che dovrebbe sostenerli.

E io sono qui, con la mia gamba rotta e un’attesa che sembra infinita. Vorrei solo tornare a casa perché lì c’è chi mi vuole bene, perché lì il dolore si sente meno quando sei circondato da voci familiari. Guariamo tutti più facilmente quando non siamo soli. E questo, forse, dovrebbero ricordarselo le nostre Istituzioni, quando parlano di sanità, di riforme, di numeri, di tagli. Non è solo questione di soldi o di strutture. È questione di umanità. Di non lasciare nessuno, né pazienti, né operatori sanitari, a combattere da solo.

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