Il decorso della polarizzazione. Una malattia da cui è necessario guarire

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Il decorso della polarizzazione. Una malattia da cui è necessario guarire

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giovedì 11 Settembre 2025 - 06:30

Non serve essere psicologi per capire che la mente tende a seguire strade già battute. Né bisogna essere storici per fare paragoni con il passato. A volte, è proprio mescolando saperi diversi – un po’ di psicologia, qualche riferimento storico, un fatto di cronaca – che si apre una chiave utile per leggere il presente. Costruire una teoria perfetta che spieghi tutto è francamente inutile, oltre che impossibile. Meglio provarci, anche per tentativi, ammettendo che sì, il mondo è frammentato e confuso, ma vale la pena guardarlo da angolazioni sempre nuove. E invece, ancora una volta, per pigrizia, abitudine o convenienza, ci adagiamo nella nostra comfort zone. Seguiamo la corrente, anche quando ci porta fuori rotta.

Basta osservare le piazze – quelle fisiche, certo, ma soprattutto quelle virtuali – per percepire la tensione. Per parlare di politica, i social hanno ormai sostituito del tutto circoli e bar, dove i doveri di socialità spesso impongono di restare superficialmente leggeri. Il dibattito si è spostato invece online, tra post, commenti, stories e dirette.

Vere o digitali, le piazze sono diventate terreno di guerriglia e continui tafferugli. Da una parte la kefiah e la bandiera palestinese usata come avatar; dall’altra la kippah e la stella di David. Protetti dall’anonimato, il confronto si irrigidisce: le distanze si amplificano, le emozioni si esasperano, i video diventano proiettili, i commenti rasoiate. Due schieramenti con i paraocchi si fronteggiano a distanza ravvicinata, senza alcuna voglia di capire i motivi dell’altro. Non si argomenta, si va solo all’attacco. Anzi, all’arrembaggio. Basta un commento fuori linea per etichettare qualcuno come nemico. E la legge del branco non perdona. È follia. Ogni tema diventa tifo da stadio, come se le opinioni fossero maglie di Roma e Lazio da indossare sempre, in ogni momento della vita. Per appartenenza, per mostrare un’identità netta, per sentirsi parte di qualcosa, per dimostrare coerenza. E così, cori e insulti alimentano il flusso incessante dei social, soprattutto quando il tema è marcatamente politico.

La psicologia sociale ha studiato bene questo meccanismo: lo chiama polarizzazione di gruppo. Quando persone con idee simili si ritrovano, le convinzioni si rafforzano e si estremizzano. Unico scopo dichiarato, all’interno del gruppo, è cercare conferme. Il confronto diventa una gara di coerenza, e chi sta dall’altra parte smette di essere interlocutore: diventa automaticamente minaccia. Sembra un meccanismo antico, radicato nella nostra biologia: il cervello tribale. E cosa davvero incredibile, spesso non ci sono differenze di censo, educazione, cultura ed estrazione sociale. La polarizzazione colpisce tutti, in maniera orizzontale, con lo stesso decorso clinico e non c’è campo o applicazione che le sfugga.

E veniamo al legame con il passato. Quando la si guarda con attenzione, la Storia ci insegna che dopo le grandi ferite collettive ci sono stati momenti di svolta. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, un’Europa stremata ma determinata, ha scelto la via della ricostruzione. Con fatica, certo, ma puntando su crescita economica, benessere diffuso, cultura e integrazione. È stato un modo per guarire, per ricucire le ferite attraverso la leggerezza e il progresso. Di segno diverso la reazione dopo la Prima Guerra Mondiale. In quel caso, il vuoto lasciato dal conflitto non fu riempito da ponti, ma da muri. Ideologie totalizzanti, promesse assolute, nemici assoluti. La polarizzazione, cioè, ha agito come motivo scatenante e motore disgregante per un nuovo ed insanabile disastro.

E oggi? Anche senza una guerra mondiale (ufficiale) in corso, ma con dinamiche geopolitiche fortemente polarizzate, ci troviamo di nuovo davanti a un bivio. La polarizzazione ha trovato terreno fertile anche e soprattutto in geopolitica, spinta da strumenti che prima non esistevano: social che amplificano effetti, emozioni e rabbia, algoritmi che rinchiudono in bolle ideologiche, crisi che aumentano paura e diffidenza. E il risultato, a distanza di un secolo, è sorprendentemente simile al primo dopoguerra del Novecento: incapacità di sintesi, desiderio di rivalsa, difesa dei propri interessi, rifiuto di comprendere l’altro.

In questo scenario, serve tornare alla ragione. Non quella astratta dei filosofi, ma quella concreta che aiuta a orientarsi. Dopo un periodo in cui il linguaggio si è irrigidito, creando modelli inclusivi che escludevano a loro volta una parte – con la filosofia woke – e dopo il revanscismo reazionario che ha sdoganato comportamenti spesso indegni, il pensiero razionale, quello di stampo illuminista, semplice, onesto, capace di distinguere senza aggredire, può fare davvero la differenza.

La polarizzazione non è una condanna. E soprattutto non l’ha prescritta nessun medico. Al contrario. Per guarire sembra evidente che il dialogo da solo non basti. Per rompere il circolo occorre lucidità, pazienza, e soprattutto il coraggio di mettere in discussione le proprie idee. Il che non significa diventare Madre Teresa di Calcutta da un giorno all’altro. Basta solo smettere di darsi ragione per partito preso.

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