Il video di un pestaggio che gira sui social, tra risate e insulti. Un adolescente che si vende in streaming per pochi spicci. Un commento d’odio postato di notte, cancellato al mattino. Un corpo all’asta su un sito di soft porn “fatto in casa”. Un branco che filma la violenza invece di fermarla.
Frammenti di un presente che svende tutto: corpo, dignità, parola, anima. Un’epoca in cui la violenza fisica e quella digitale si alimentano a vicenda, e la popolarità è diventata passe-partout sociale. Anche a costo di distruggere vite.
Come si fa a coltivare il controllo su sé stessi, la serenità, o anche solo il dubbio, se intorno a noi regna il caos e ogni tentativo di autodisciplina viene travolto? Sembra impossibile. Eppure, proprio in questo scenario, le filosofie antiche tornano necessarie. Lo Stoicismo, l’Epicureismo, lo Scetticismo pirroniano non sono rifugi per chi vuole scappare dal mondo, ma strumenti per attraversarlo senza esserne schiacciati.
Oggi l’etica sembra una battaglia persa. La polarizzazione geopolitica si riflette nel quotidiano: nel linguaggio, nei gesti, nei rapporti. Il rispetto per la diversità, un tempo valore condiviso, oggi pare evaporato. Anche per colpa di un’eredità “woke” che, predicata in modo dogmatico e talvolta aggressivo, ha finito per generare l’effetto opposto: liberare la trivialità e la volgarità di istinti repressi.
Forse le persone avevano un irrefrenabile bisogno di urlare, di sputare parole come pietre, di vomitare addosso agli altri la propria frustrazione. Di insultare, provocare, umiliare. Di scrollarsi di dosso ogni pudore, ogni misura. Di esporsi, esibirsi, svuotarsi. Di sentirsi potenti per un attimo, anche solo dietro uno schermo? Chissà.
Quello che sappiamo è che i social hanno amplificato tutto questo, trasformando chiunque in protagonista inconsapevole di un palcoscenico globale. Instagram, Facebook, TikTok: piattaforme dove la fama si conquista al risveglio, senza meriti. Qualcuno la chiama “giustizia orizzontale”. Ma è evidente che qualcosa ci è sfuggito di mano.
La svendita del corpo e dell’intimità è a portata di clic. Intanto, proliferano gli odiatori seriali: creature notturne che vomitano veleno dalle tastiere, per poi indossare al mattino la maschera dell’agnello sacrificale.
Ai miei tempi, lo stadio – anche in estrema provincia – era il luogo deputato allo sfogo, almeno quello vocale. Oggi lo stadio è quasi un oratorio, al confronto di ciò che accade fuori e dentro ad internet. Perché i freni sono saltati. E la dignità, semplicemente, non c’è più.
Eppure, uno spazio diverso esiste. Solo che non lo vediamo. Associazioni, circoli, laboratori, biblioteche, orti urbani: luoghi dove la socialità non è spettacolo, ma incontro. Dove la dignità non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana. Basta saper cercare. Basta volerlo.
Il problema è vivo per chi resiste con la scorza dura, ma è un’impresa quasi impossibile per chi cresce figli in un mondo che ogni giorno sollecita, tenta, mette alla prova. Come dare forma a una visione etica, se tutto ciò che ci circonda sono macerie – fisiche e morali?
Forse la risposta è nella filosofia. Quella che molti considerano ostica, inutile, noiosa, non è un rifugio per chi vuole scappare, ma un porto sicuro per attraversare il mondo senza rimanerne schiacciati. Lo Stoicismo ci insegna che la mente è il nostro fortino e, se lo vogliamo, è inespugnabile. Epicuro che la serenità è affrontare i problemi senza fasciarsi la testa. Pirrone che sospendere il giudizio ci libera dalle narrazioni uniche e dalla malattia del “o con me o contro di me”.
Allenarsi al distacco attivo – osservare ciò che ci irrita senza reagire subito – può fare la differenza. Così come coltivare luoghi e comunità dove il confronto sia reale e la crescita condivisa, giorno dopo giorno. Certo, ci vuole molta umiltà per continuare a imparare… ma con un po’ di impegno tutto è possibile.
Forse, in un’epoca che urla, la vera forza è nel saper tacere. Nel non reagire a ogni provocazione. Nel custodire uno spazio interiore che resti intatto. Non per egoismo, ma per continuare a guardare il mondo — anche nelle sue rovine — senza smettere di essere umani. E di migliorarsi.
Ho sempre guardato con sospetto la massima siciliana “a megghiu parola è chidda ca nun si dici”. Mi sembrava intrisa di spirito malfido, viscido, in una parola mafioso. Eppure, forse è tempo di rivederla. Di accogliere il suggerimento degli antichi. Di fare del silenzio, finalmente, una scelta consapevole.