La copertina del TIME del 1° agosto non è una testimonianza. È una messa in scena. Un’immagine che pretende di contenere il dolore, di offrirlo in formato compatibile, di renderlo consumabile. Donne e bambine con pentole vuote, occhi che non chiedono ma riempiono lo spazio, pose che non accusano ma compongono. Gaza diventa un quadro, una tragedia estetica, un dramma da sfogliare comodamente da casa.
Peccato che Gaza non sia una tragedia. È una struttura. Un algoritmo di morte. Un dispositivo che regola il flusso del pane come si regola il traffico dati. No, quell’immagine non ci rende giustizia: perché non distingue, non denuncia. Non come deve essere. Mostra soltanto. E nel farlo però dissolve la verità.
Antonioni, in Blow-Up, ci ha insegnato che l’immagine non è mai neutra. Il fotografo Thomas ingrandisce una foto scattata per caso e scopre, forse, un omicidio. Ma più ingrandisce, più la verità si smaterializza. Il cadavere si trasforma in una macchia astratta, in un quadro. La realtà si frantuma nell’ambiguità dell’immagine. L’atto del vedere non chiarisce, ma confonde. Non certifica: insinua.
Nella società dello spettacolo, anche la fame e la morte diventano attori. Anche la disperazione. Le immagini non spiegano, non contestualizzano. Si limitano a essere cartoline emotive, cortometraggi senza trama, fiction travestite da realtà. Il dolore diventa linguaggio, la sofferenza si fa estetica, il crimine si trasfigura in tragedia. E noi, spettatori, ci rifugiamo nella nostra comfort zone emotiva, dove possiamo sentirci sensibili senza rimanerne coinvolti davvero.
Il voyeurismo non è più una deviazione. È una condizione. Guardiamo per non esserci, per non agire. E forse anche per non sentire. La realtà si è ritirata dentro di noi, nel teatro della nostra finzione. È lì che viviamo, mentre il mondo si distrae. E noi con lui.
Guy Debord lo aveva già intuito: “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Il vissuto si ritira, la rappresentazione prende il suo posto. La nostra attenzione è irrimediabilmente selettiva, reversibile, anestetizzata. Non ci espone, non ci vincola. È solo una forma di presenza che non costa nulla.
Siamo diventati fabbricatori di scuse, procrastinatori seriali, esperti nell’inganno. Inganniamo noi stessi, gli altri, il tempo, i sentimenti, la verità. Non ci curiamo più di ciò che sta fuori. Abbiamo proiettato tutto nel nostro interno egoismo.
E lì, nel teatro della nostra finzione, accadono ormai le cose. È lì che ci siamo rifugiati. È lì che osserviamo. Non per capire, ma per confermare a noi stessi. Non per agire, ma per restare immobili. Non per essere, ma per apparire.
Simone Weil scriveva che “l’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità”. Ma oggi l’attenzione è un gesto estetico, non etico. Un modo per apparire coinvolti senza esserlo. Per mostrare sensibilità senza pagarne il prezzo.
Le pentole di quei bambini restano vuote. Gli occhi continuano a cercare. Il pane non arriva. E noi, nel frattempo, osserviamo. Non per capire, forse. Ma nemmeno del tutto indifferenti. Qualcosa ci trattiene davanti all’immagine. E in quel caotico silenzio, di tanto in tanto, affiora un pensiero: che guardare certo non sia abbastanza. Ma che smettere di guardare sarebbe anche peggio.