Caro Sergio,
Dimmi come parli e ti dirò chi sei, verrebbe da dire. Certo, messa così la frase suona un po’ troppo naif, ma un fondo di verità c’è. Specialmente in un momento di grandi tensioni geopolitiche, come quello che stiamo vivendo, la lingua che si parla (insieme al linguaggio utilizzato) può offire una grande ancora di salvezza. Oltre che aiutare ad indirizzare le sorti del futuro dell’umanità. Vediamo perché.
L’inglese è la lingua franca dei nostri tempi, come lo era il latino duemila anni fa nell’ allora mondo conosciuto. Significa che, ad esempio, trovandoci nel posto più remoto del pianeta, senza saper spiccicare una sola parola nell’ incomprensibile idioma locale, con l’utilizzo di un succinto vocabolario di sussistenza in inglese , avremo non solo sfamato la nostra fame e appagato i nostri bisogni più basilari, ma anche dato forma e sostanza ai nostri pensieri (giudizi, intenzioni, chiarimenti, proposte) che, altrimenti sarebbero rimasti pura potenza inespressa. Un passo avanti della modernità, in un mondo che, nonostante qualcuno voglia riportare indietro le lancette dell’orologio, fino a qualche decennio fa, trovava difficoltoso esprimersi anche nelle rispettive lingue nazionali. Basti pensare alle nostre care nonne sicule, cresciute a “pani, vinu e zuccaru”.
È notizia di questa settimana che diversi Cantoni della Svizzera occidentale, di lingua prevalentemente francese, abbiano approvato, con effetto immediato , l’inglese come lingua ufficiale. Solo apparentemente la notizia può sembrare bizzarra. In un territorio (quello elvetico) così variegato e pieno di ricche sacche culturali, luogo di incontro di diverse “lingue madri”, il francese e il tedesco principalmente, ma anche l’italiano e il ladino, ecco che sorge l’esigenza di affidarsi ad una lingua terza, intelligibile per tutti: l’inglese, appunto.
“Per anni abbiamo annuito educatamente, durante le riunioni federali in tedesco, si legge in una nota di un funzionario di Neuchatel, sperando che la frase successiva fosse nella nostra lingua”.
Forse è per questo che, non arrivando mai il turno del francese, si è pensato di fare quello che già tutti fanno in pratica: passare naturalmente all’inglese quando la distanza linguistica crea barriere insormontabili. In due parole spiegata l’efficacia e la forza della lingua franca: nè la mia, nè la tua lingua … incontriamoci pure a metà strada … senza che nessuno di noi abbia un vantaggio politico, culturale, sociale. Partiamo cioè tutti dalla stessa base con una sorta di livellamento programmato. Una strategia che potrebbe portare in un futuro abbastanza prossimo all’estensione dell’inglese come lingua “ufficiale” anche nei cantoni dove è forte il predominio della lingua tedesca. E così, les jeux sont faits. Senza rancori per nessuno.
Mi stupivo un tempo quando, nell’attraversare la Svizzera in treno, mi ritrovavo ad ammirare la naturalezza espressiva del capotreno di turno, splendidamente a suo agio con tutte le lingue della confederazione (ladino compreso) a seconda del passeggero che aveva davanti. Identica sensazione in Belgio, dove se possibile gli steccati linguistici risultano forse ancora più alti, correndo lungo quel preciso confine vallone (francese) e fiammingo (olandese). Beh, ammetto che mi sarebbe piaciuto essere come il capotreno svizzero. In molti sfido lo avrebbero invidiato. Ma il dono del poliglotta è purtroppo merce rara. Per il resto, non rimane che adeguarsi a parlare almeno l’inglese. Per non rimanere indietro. Oppure, per i più competitivi, per non dare vantaggio ai propri interlocutori. O anche, per i più testardi, solo per capire…
In un mondo ancora globale, fino a prova contraria, lo switch linguistico accade ovunque lungo le faglie etniche (o culturali) create dalla Storia. E non necessariamente segue i confini nazionali. Solo considerando l’ Europa, a parte i casi già citati, lo shock linguistico (e culturale) è ben presente in Alto Adige, dove comunque il bilinguismo perfetto (o quasi) neutralizza le distanze. Più o meno la stessa storia in Istria e in misura molto minore quella che fu un tempo la Dalmazia croata, con italiano e slavo a rincorrersi (sloveno e croato); nella Slesia, dove lo switch tedesco vs slavo (nelle due declinazioni: ceco e polacco ) è ancora all’ordine del giorno. E così via. Ed è tanto più aspro laddove i limes linguistici sono più profondi, dove le distanze diventano incolmabili, le rispettive lingue finiscono per non essere più intellegibili e dove talvolta (non a caso) le tensioni salgono alle stelle: come il Kosovo albanese vs il serbo; il polacco vs bielorusso, il finlandese vs russo, etc…
In quelle faglie, piaccia o non piaccia, arriva in soccorso l’inglese. Che ci rende un po’ più liberi e forse accorti, attenti, e magari rispettosi nei confronti degli altri. Esprimersi in una lingua straniera è pensarsi diversamente, razionalizzare il proprio pensiero, tradurre in intenzioni pratiche quello che magari è un riflesso incondizionato, un automatismo della propria lingua che ci tiene in gabbia. Senza fronzoli o barocchismi. Sforzarsi a parlare in una lingua che non è la propria è spesso anche provare a trovare un compromesso con i fantasmi della Storia. Perche no? Una forma pratica di libertà da ogni condizionamento. La ricerca di un punto di equilibrio. La sintesi fra ogni tesi e ogni antitesi.
È di questa settimana la notizia che la Regione Siciliana abbia finanziato (per il secondo anno consecutivo) un progetto per lo studio del dialetto siciliano tra i banchi di scuola. Obiettivo del progetto “Non solo Mizzica – Il siciliano, la lingua di un popolo”.
Niente di male, per carita’. Si tratta di una iniziativa pregevole se proposta con cognizione, seppure di segno opposto ai vari progetti di internazionalizzazione verso cui immagino la Scuola sia comunque già fortemente indirizzata (o almeno spero). Tutti sappiamo quanto sia importante coltivare le proprie radici, il patrimonio culturale le tradizioni linguistiche della nostra terra.
Eppure, provando a forzare e mettere in relazione queste due notizie di questa settimana; da un lato la Svizzera che sceglie una lingua terza come propria lingua ufficiale e dall’altro la Sicilia che punta invece allo sviluppo del proprio dialetto, mi viene spontaneamente da pensare: ne abbiamo ancora di strada da percorrere, per azzerare le distanze, aprire gli orizzonti e immaginare non solo l’Europa ma il mondo intero come casa nostra … A long way forward … per imparare forse, passando magari da “Non solo Mizzica”, a non confondere mai più ‘a m*nkia co’ bummulo. O se si vuole: la lana con la seta. Stammi bene.