Puntuale come le feste comandante, anche in questa legislatura si ripropone un grande classico della Seconda Repubblica: il conflitto tra politica e magistratura. Un appuntamento fisso che, da Mani Pulite in poi, si ripropone con cadenza costante. Nel ’92, però, bastava un avviso di garanzia per portare alle dimissioni di un ministro o un sottosegretario. Da Berlusconi in poi, invece, l’avviso di garanzia è diventato uno strumento che consente al politico di turno di presentarsi agli italiani in tv (o, più recentemente, sui social) come una vittima della magistratura ideologizzata, delle opposizioni o del Deep State, che intendono ostacolare i suoi coraggiosi tentativi di cambiare il Paese. Se 30 anni fa, però, si arrivò all’eccesso di considerare ogni politico indagato un criminale, oggi assistiamo al paradosso di una parte consistente dell’opinione pubblica nazionale che considera criminali i magistrati che osano approfondire questioni di rilievo giudiziario che coinvolgano personalità del mondo politico.
Dimenticando che una democrazia non vive solo di libere elezioni in cui una maggioranza (ormai esigua) di cittadini sceglie i partiti, le coalizioni e – di conseguenza – i governi. Ma si nutre di quel principio di separazione dei poteri che prevede una serie di pesi e contrappesi concepiti in modo che nessuno dei tre prevarichi sull’altro, come avvenuto nella prima metà del secolo scorso, quando si consentì all’esecutivo di strabordare fino ad assorbire del tutto il legislativo e a condizionare pesantemente il giudiziario, magari aggiungendo anche la soppressione (più o meno palese) della libertà di espressione e del pluralismo politico. Uno scenario del genere è tipico dei regimi autoritari, delle dittature, dei totalitarismi. Le democrazie sono ben altra cosa.
Intendiamoci: non è che nei Tribunali funzioni tutto a meraviglia. Ci sono uffici e procure che si misurano con organici ridotti all’osso e fanno tremendamente fatica a portare avanti i carichi pendenti, con ripercussioni sul diritto alla giustizia dei cittadini e talvolta persino sul principio di certezza della pena. Ma la comunicazione politica preferisce puntare l’attenzione sui soliti vecchi slogan, che – anche di fronte al caso Delmastro – parlano di “sentenza politica”, “toghe rosse” o “giustizia ad orologeria”, quando sarebbe più opportuno chiedersi se davvero è accettabile che un sottosegretario alla giustizia (!) continui ad esercitare il proprio ruolo anche di fronte a una condanna, in barba al buon senso, alla logica e all’opportunità politica. Dimenticando che, atteggiamenti del genere, non aiutano a irrobustire la coscienza civica di ogni cittadino, che magari si chiede – oggi più che mai – perchè quello Stato così rigoroso verso di lui nell’esigere il rispetto delle leggi o il pagamento dei tributi sia invece così disinvolto nell’autoassolvere da ogni illecito i propri rappresentanti istituzionali.