Edoardo Cacciatore, un corpo estraneo nella poesia italiana

redazione

Edoardo Cacciatore, un corpo estraneo nella poesia italiana

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mercoledì 05 Febbraio 2025 - 07:44

La costellazione degli autori irregolari, fuori da tutti i canoni, marginali, ignorati o rimossi – per pura sfortuna o per ostracismo e disattenzione critica – è piuttosto ampia nelle mappe letterarie del secolo scorso. Il più alieno tra gli irregolari della poesia del secondo Novecento, però, è molto probabilmente un autore siciliano che risponde al nome pressoché misconosciuto di Edoardo Cacciatore. Un poeta particolarmente attivo tra gli anni Cinquanta e Novanta, ma un autore trascurato persino dagli addetti ai lavori, forse per il suo temperamento solitario e appartato, per la sua irriducibile collocazione ai margini della società letteraria, e per la singolarità della sua ricerca poetica formalmente eccentrica, riluttante a qualsiasi catalogazione spicciola.

Nato a Palermo nel 1912 da genitori agrigentini, Cacciatore è vissuto a Roma fino al ’96, l’anno in cui è scomparso. Eppure nemmeno dopo la morte è avvenuta una qualche riabilitazione della sua figura e della sua poesia, considerata tuttora quasi unanimemente difficile, verbosa, inclassificabile. Autore tra l’altro di alcuni saggi filosofici e di cinque libri di versi, tra cui Lo specchio e la trottola del 1960 e l’originalissima raccolta dei Graduali del 1994, Cacciatore sarà destinato a rimanere irrimediabilmente una sorta di corpo estraneo nel paesaggio letterario nostrano. Come scrive Giorgio Patrizi nella prefazione a Tutte le poesie in cui è raccolto l’intero corpus dei testi del poeta palermitano (pubblicato meritoriamente da Piero Manni nel 2003): “Cacciatore soffre, nella storia della poesia contemporanea, proprio di questa singolarità, della propria radicale estraneità ai modelli dominanti nella poesia del secondo dopoguerra”.

Cacciatore non è presente, infatti, in nessun principale repertorio antologico della poesia novecentesca, e i suoi testi – nonostante qualche testimonianza critica importante, come quelle di Giulio Ferroni e Francesco Muzzioli, o l’interesse costante di alcuni estimatori – sono stati per lungo tempo irreperibili nelle librerie italiane, se si eccettua l’autoantologia einaudiana Il discorso a meraviglia, uscita postuma nel 1996, che lo stesso autore aveva curato pochi mesi prima di morire, e che comprende una scelta significativa della sua produzione.

Cacciatore è sostanzialmente un manierista e un visionario, e la sua poesia una densa e continua concatenazione di immagini e di pensieri nella cui fitta tessitura non è infrequente riconoscere frammenti e termini del suo background isolano. Una cifra più raziocinante che emotiva in cui il poeta ricorre spesso all’uso di parole auliche, rare, preziose, così come ad alcuni neologismi, e a un registro espressivo ‘alto’ che non ha, appunto, precisi termini di paragone con la poesia coeva. Ma la caratteristica più evidente, e qualche volta snervante, dei testi di Cacciatore è il suo virtuosismo ritmico: un ritmo incessante, cerebrale e inesorabile, durante il quale è possibile a volte sentire il battito continuo di un metronomo. Una visione per così dire ‘euclidea’ della poesia attraverso l’uso quasi irrinunciabile e tendenzialmente maniacale della rima su cui si sorreggono delle complesse architetture verbali. 

Sublime o indigesta che possa apparire, forse proprio per la sua assoluta unicità, la poesia di Edoardo Cacciatore meriterebbe comunque di essere largamente scoperta prima ancora che riscoperta: “Ma complice non più mi è la vita né moglie / Me per preda divoro e spartisco in spoglie / Dal vello al midollo tutto mi sconnetto / Della mia stessa fame sono il prediletto”.

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