Il variopinto capodanno dei poeti

Francesco Vinci

Il variopinto capodanno dei poeti

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mercoledì 18 Dicembre 2024 - 07:00

Rispetto al Natale, su cui esiste naturalmente una letteratura pressoché inesauribile, le ricorrenze dell’ultimo dell’anno e del capodanno – con i suoi piccoli e grandi riti, le aspettative e le atmosfere variopinte, così come i toni malinconici – rappresentano una fonte di ispirazione più ‘laica’ e forse meno conosciuta, ma non meno ricca di esempi sorprendenti, tra gli autori nostrani. L’excursus potrebbe essere, ovviamente, molto lungo e composito.

Limitandoci soltanto ai testi esemplari di alcuni poeti del Novecento, il Montale di Satura è tra l’altro l’autore di uno dei testi più dissacranti sul passaggio d’anno, Fine del ’68, in cui il poeta – come un imperfetto e più cinico Astolfo – contempla “dalla luna, o quasi / il modesto pianeta”, ostentando tutta la sua apparente estraneità nei confronti di un mondo che si accinge a celebrare festosamente l’anno nuovo, forse per distrarsi dall’idea della morte che si fa esplicita negli ultimi versi: Tra poche ore sarà notte e l’anno / finirà tra esplosioni di spumanti / e di petardi. Forse di bombe o peggio, / ma non qui dove sto. Se uno muore / non importa a nessuno purché sia / sconosciuto e lontano”. I versi del poeta ligure sono di sconcertante attualità, se si pensa alle guerre e ai conflitti in corso nel mondo.

Qualche capodanno dopo, Patrizia Cavalli – in uno dei suoi acuminati epigrammi – sembrerebbe echeggiare proprio i versi montaliani, con un’esplicita dichiarazione di saggia e conquistata indifferenza di fronte all’anno che passa: “Non benedico certo l’anno nuovo / non voglio benedire proprio niente; / nuovo o vecchio che sia non mi commuovo / ma, cosa nuova, mi sono indifferente”.

Di diversa impronta è il bellissimo sonetto con cui Franco Fortini apre la sezione Versi per la fine dell’anno, contenuta nella raccolta Paesaggio con serpente. L’anno che finisce è il 1975 e i versi, dedicati al collega Zanzotto, tracciano un bilancio doloroso perché evocano la recente morte violenta di Pasolini: “Come nel buio si ritrae lento, / Andrea, questo anno già da sé diviso. / Ora nel vischio del suo fiele intriso / starà così per sempre spento”. Gli ultimi versi, in modo sarcastico, alludono pessimisticamente all’Apocalisse e a una inesistente Gerusalemme.

La poesia di Vivian Lamarque, con la sua inconfondibile cadenza infantile, in una delle sue filastrocche ci riporta invece alla dimensione elementare e propiziatoria dell’anno che comincia: “’Buon anno!’, dice il mare / al suo pesciolino. / ‘Buon anno!’, dice il cielo / al suo uccellino / (…) / e anche il panino al suo formaggino”. Mentre il conterraneo Luciano Erba, in Capodanno a Milano, depreca la mancanza degli “uomini augurali” di un tempo, affidandosi a una vecchia credenza popolare meneghina: “Si credeva a Milano che a vedere / per primo un uomo sulla soglia di casa /andando a messa il primo di gennaio / fosse segno di prospero futuro”.

Ma è un poeta del Sud come Leonardo Sinisgalli quello che ha forse meglio celebrato, nei soli tre versi frugali di Fine d’anno, il rito domestico e solitario della notte di San Silvestro: “Metti sulla graticola / una formica e una pica. / Fai un pranzo all’antica”.

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Un commento

  1. Al solito, interessante. Aggiungerei, se posso, anche questo, che riguarda il 2008.
    In questo Capodanno
    sulla riva limacciosa
    olezzante di petrolio
    in cima alla roccia affiorante
    il gabbiano ferito
    che non può volare
    guarda impotente
    quest’inaffidabile 2008.
    (da Un pezzo di vita, di Dino Agate).

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