La battaglia combattuta nelle acque delle isole Egadi è stato un vero e proprio momento di svolta
nella storia antica, sancendo il dominio di Roma sul Mediterraneo.
Ebbe luogo il 10 marzo del 241 a. C. e, come dimostrano i numerosi ritrovamenti e come intuito anche dal compianto prof. Sebastiano Tusa, si svolse nello specchio d’acqua fra Trapani e Levanzo, a nord-ovest dell’isola.
Fu questo il luogo dell’atto conclusivo dell’estenuante lotta fra Romani e Cartaginesi durata ben 24 anni, dal 264 a.C. al 241 a.C., e costellata di numerosi scontri navali e terrestri, assedi e guerriglie, che avevano logorato entrambe le potenze.
I combattimenti si erano protratti per anni con scontri sulle colline fra Trapani e Palermo, senza che la situazione si risolvesse. Da un lato e dall’altro, commerci e finanze erano in forte difficoltà.
Con la battaglia delle Egadi dunque Roma tentò il tutto per tutto e decise di sfidare, per l’ennesima volta, la dominatrice dei mari.
All’inizio della guerra punica Cartagine infatti era ben più preparata ed attrezzata per battaglie navali, avendo dalla propria navi molto più veloci e leggere. Ma i Romani dimostrarono in questa occasione una grande capacità di evolversi velocemente, migliorare, studiare e imparare.
Durante l’assedio di Lilybeo, iniziato nel 250 a.C, avevano catturato una quadrireme nemica e l’avevano mandata a Roma con l’intento di carpirne le tecniche costruttive.
Fu a seguito di ciò che, all’inizio dell’estate del 242 a.C., facendo appello alle ultime risorse, Roma armò una nuova flotta e la spedì in Sicilia sotto la guida del comandante Gaio Lutazio Catulo per sfidare ancora una volta Cartagine. Arrivato in Sicilia, Gaio Lutazio Catulo occupò il porto di Trapani e mise sotto assedio la città.
Saputo dell’arrivo dei Romani, Cartagine puntò la propria flotta, affidata al comandante Annone, verso la costa siciliane. Questa avrebbero dovuto correre in aiuto delle le truppe di terra, comandate a loro volta da Amilcare Barca, fornendo loro sostegno e rifornimenti.
Annone sostò a Marettimo e, all’alba del 10 marzo del 241, con il vento favorevole, si diresse verso la costa della Sicilia.
Ma, nel frattempo, Gaio Lutazio Catulo saputo dell’arrivo dei nemici, aveva pensato ad un effetto sorpresa: preso il mare, attese il passaggio dei nemici dietro il promontorio di Capo Grosso.
Quando i Cartaginesi si resero conto della presenza nemica era troppo tardi. Le navi cartaginesi inoltre, cariche di merci e poco manovrabili, prese alla sprovvista, si trovarono in difficoltà di fronte a quelle romane, rese più leggere grazie al nuovo metodo costruttivo.
Le navi romane inoltre erano state dotate di un’arma potente: un rostro a tre fendenti che, posto a prua, provocava una lunga ferita nelle navi nemiche facendole affondare velocemente.
Altre navi usavano invece un metodo diverso: si affiancavano a quelle cartaginesi per agganciarle con il “corvo”, una passerella che permetteva poi il passaggio dei soldati.
Grazie a tutto ciò, i Romani affondarono cinquanta navi cartaginesi e ne catturarono altre settanta, provocando anche migliaia di morti.
La sconfitta si rivelò pertanto molto pesante per i Cartaginesi che, con le finanze stremate e la flotta decimata, furono costretti a chiedere la resa a Roma, la quale pretese il loro ritiro da tutta la Sicilia.
Oggi questo angolo di Sicilia custodisce il ricordo di quel difficile giorno. L’area dove si svolse lo scontro è ricca di tesori: lì sono stati rinvenuti infatti ancore, rostri, anfore greco-italiche e puniche, monete, chiodi ed elementi lignei.
Tutti elementi che, insieme ad anni di studi e ricerche, hanno permesso di riscrivere la storia di questo momento così decisivo.