Umberto Lucentini: “In via D’Amelio trovai l’inferno. Non si smetta di cercare la verità”

Vincenzo Figlioli

Umberto Lucentini: “In via D’Amelio trovai l’inferno. Non si smetta di cercare la verità”

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martedì 19 Luglio 2022 - 06:45

Raccontò le stagione delle Stragi, mantenendo nel tempo l’eredità morale e civile del suo incontro con Paolo Borsellino, con cui avrebbe dovuto scrivere un libro a quattro mani. Originario di Marsala, Umberto Lucentini è un punto di riferimento autorevole del giornalismo italiano (L’Espresso, Rai Tre, Corriere della Sera). Nelle scorse settimane è tornato in stampa il suo libro “Paolo Borsellino. 1992, la verità negata”, che ricostruisce le delicate giornate intercorse tra la Strage di Capaci e quella di via D’Amelio, senza tralasciare le omissioni e i depistaggi che hanno impedito di far piena luce sulle responsabilità correlate a una delle pagine più drammatiche della storia repubblicana.

Umberto Lucentini

Qual è il tuo ricordo di quel 19 luglio del 1992?

Ero al giornale, di turno. Dalla radio collegata alle forze dell’ordine abbiamo improvvisamente sentito che c’era stata una forte esplosione nella zona di via D’Amelio. La città era deserta, sono arrivato sul posto nel giro di 5 minuti. Ho trovato l’inferno. Poco dopo, ho cominciato a capire cos’era successo e chi era stato coinvolto nell’esplosione…

Quali sono state le sensazioni e le emozioni prevalenti tra chi è poi arrivato sul luogo della Strage in quei concitati momenti?

Tutti pensavamo che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a Paolo Borsellino. Si sapeva che era un obiettivo di Cosa Nostra. Abbiamo provato quindi un grande senso di impotenza, dovuto alla consapevolezza che lo Stato e le persone che ricoprivano un ruolo istituzionale non hanno fatto quello che potevano per salvare la vita a Paolo Borsellino. Poi, c’era anche la tristezza, il dolore umano di fronte alla perdita di una persona che conoscevamo bene…

Negli anni in cui Paolo Borsellino guidò la Procura di Marsala tu eri un giovane cronista di giudiziaria. Cosa ricordi di quella stagione?

Con il suo bagaglio culturale e la profonda esperienza maturata con il maxiprocesso rivoluzionò quell’ufficio, di cui fu capo autorevole e mai autoritario. Con il suo esempio portò tanti giovani magistrati a lavorare in maniera diversa e in quegli anni ci furono anche i primi collaboratori di giustizia e testimoni di giustizia come Piera Aiello e Rita Atria, che in Paolo Borsellino riconobbero il volto credibile di uno Stato a cui ritennero di poter fare affidamento.

Resta l’amarezza per una verità ancora lontana, come dimostra anche l’ultima sentenza del processo sui depistaggi…

Una ferita dolorosa, prima di tutto per i figli, ma, in generale, per tutti noi. Il tempo perso ha reso tremendamente difficile poter scoprire tutta la verità. Tuttavia, non dobbiamo rassegnarci, seguendo l’insegnamento di Paolo Borsellino: sarebbe come tradire la sua eredità. Certo, il peso che hanno avuto i depistaggi e i fallimenti di una parte della magistratura nell’attività di indagine sono evidenti. C’è però un’altra parte della magistratura che, con coraggio, continua a impegnarsi per arrivare alla verità.

Dopo 30 anni, tanti giovani che non erano nati nel 1992 e, quindi, non hanno vissuto quella stagione, continuano a mostrare interesse e attenzione rispetto alla storia di Paolo Borsellino. Come te lo spieghi?

Me lo spiego con l’unicità di Paolo Borsellino, che pur consapevole del destino che lo aspettava, è andato ugualmente avanti, esponendosi in prima persona. Invito chi non lo avesse ancora fatto ad andare a cercare sul web le interviste in cui Paolo Borsellino parla e racconta, con la sua cadenza siciliana: vale la pena ascoltarlo e guardarlo negli occhi per cogliere la testimonianza di vita di questo grande uomo.

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