Nessun dubbio che, quando 2.500 anni fa Siracusa ed Agrigento rivaleggiavano con Atene e Corinto per il dominio sui mari del Mediterraneo, da Trapani a Messina da Palermo a Siracusa, per tutta l’isola, in lungo e in largo, ci si esprimesse nella lingua di Socrate e Platone: il greco. O almeno in una delle tante varianti dialettali che i coloni greci si portavano appresso dalle loro città natie.
C’è da scommettere dunque che per indicare la parola “domani”, giorno seguente a quello odierno, sull’isola per lunghi secoli il nostro prototipo siculo di quei tempi, che per convenzione chiameremo Eracle, usasse la parola “aurion“. Poi fu la volta dei romani. Dopo aver spezzato le reni ai malcapitati greci, già abbondantemente fraccati di legnate dai cartaginesi, le potenti quinqueremi latine, colarono a picco le velleità fenicio-puniche sul Mediterraneo. Cartagine divenne dunque quella per cui la conosciamo oggi: un ammasso di rovine ben tenute in una delle zone di villeggiature più belle nei dintorni di Tunisi.
Colpito al cuore l’impero fenico-punico siciliano, i romani cominciarono il giorno dopo a sostituirne la mobilia. Il giorno odierno, oggi, lo chiamarono “odie“, e il domani “cras“. Mentre il nome del nostro proto siculo nel frattempo aveva cambiato i connotati e da Eracle era mutato in Ercole. Contemporaneamente, con buona pace dei greci, questo Ercole si era tolto in maniera sprezzante la corona di alloro dal capo, aveva reclinato il tavolino per sorbire un pasto e, fra le altre novità, aveva preso a spalmarsi i muscoli di un unguento puzzolento. Probabilmente per segnalare al mondo intero quanto valesse a quei tempi la forza fisica. Molto più di quella del pensiero.
A questo
punto: colpo di scena! Dopo lunghissimi sette secoli di dominazione
romana, la potenza dell’Urbe non solo
si sciolse come neve al sole, ma
scatenò una violenta e sanguinosa corsa
all’oro biondo siculo: il grano
per cui l’isola era rinomata. Fu così che diversi personaggi dai nomi impronunciabili
(Agilulfo, Ataulfo, Gaiserico, Genserico
e via discorrendo) cominciarono a scorrazzare impunemente sulla nostra
isola e a godere dello squisito pane dei forni siculi. Si facevano chiamare Vandali e Ostrogoti che è già tutto dire. Fortunatamente, oltre alle note
malefatte, nonostante ci restassero per quasi un secolo, nulla ci rimane di
loro che non sia un pessimo olezzo di
diarrea.
Così con Belisario e i suoi scagnozzi
bizantini, mezzi greci, un po’ balcanici e un po’ turchi, per un
complicato capriccio del destino, si ritornò a parlare greco sull’isola. Anche
se era una lingua greca molto più arzigogolata
e sofisticata di quella classica.
Una lingua con il trucco, si potrebbe dire. Il nostro prototipo siculo, allora con il nome di battesimo Comneno, aveva cominciato a
diversificare le sue preghiere avendo probabilmente in testa fin da allora il pope, la sua mitra
e una chiesa più raccolta, a croce
greca, dove tutti i fedeli fossero sempre vicini alle uscite di emergenza.
Nel frattempo aveva cominciato ad indossare una palandrana piena di diamanti e lustrini, si era fatto crescere la
barba, come uno hypster dei giorni
nostri e aveva preso ad accendere in ogni angolo della sua casa, a due passi
dalla Kalsa, dei profumati bastoncini
di incenso che si faceva
arrivare direttamente da Costantinopoli.
Dimenticavo: era tornato a chiamare il domani “a’vrio“.
Fin
quando il suo villino in località di Mazara
del Vallo, sul lungomare Tonnarella,
non fu preso d’assedio da migliaia di extracomunitari.
Di lì a poco tutta la Sicilia cominciò a riempirsi di nordafricani fatimidi, arabizzati a sufficienza e ormai musulmani fino alle ossa… E nulla poté a quei tempi, nemmeno il catapano Salvinos, nè l’esercito di cani arrabbiati che si diceva
appartenere alla Lega Bizantina e che
lui si vantava di guidare. Per la cronaca, sembra che il catapano solesse mostrarsi in giro con una serie di felpe che di volta in volta
testimoniavano il suo labile innamoramento per un nuovo posto “esotico”. “I love Costantinopoli”, la scritta
più ricorrente.
Con l’arrivo degli arabi e con il precipitare degli eventi, il nostro prototipo
a questo punto non ebbe dubbi sulla scelta del proprio nome: Mohammed. Scegliere il nome del profeta, non solo era di buon auspicio,
ma lo avrebbe tolto d’impaccio anche davanti alle varie fazioni di musulmani, una volta sciiti,
un’altra volta sunniti che, a cadenza
annuale sbarcavano sull’isola e che, tutti con il dito medio teso verso
l’alto, avevano il vizio di arringare la folla a forza di hadith, prima di sfinirla con la Surat an-Nisah, la sura
delle donne… Il domani, nella sua nuova lingua, era diventato a questo punto
“al-ghad“.
Ci vollero quegli attaccabrighe ubriaconi dei normanni, biondi celtici francesizzati (almeno nella lingua), a far cambiare idea al nostro prototipo siculo che, nel frattempo, aveva messo su qualche pixel in più sul colorito della sua carnagione, diventata ormai ufficialmente olivastra. Il nostro caro e affezionatissimo scelse stavolta di chiamarsi Ruggero come nome di battesimo. Per una decina di generazioni sull’isola si alternarono solo due nomi: Guglielmo e Ruggero. Praticamente come in Cent’anni di solitudine… E tanto combatterono contro gli infedeli musulmani che addirittura come premio divino ebbero in cambio un bel paio di occhi cerulei e una decisa schiarita di capelli che, per inciso, le malelingue nordafricane addebitavano ad un eccessivo uso di schiarente a base di camomilla.
Sepolto Mohammed, per il nostro Ruggero, non ci furono dubbi, la parola magica era ormai diventata “demain“. Ma non c’era “abento e queto” all’ombra della zabbara. I teutonici scalpitavano. E presto portarono con sé falconi, trovatori, la Zisa e la Cuba e, ancora una volta, diverse lingue parlate, fra cui anche quella tedesca del nonno di Federico II: niente popò di meno che il grande Barbarossa. Fu a questo punto che il nuovo siculo, messo già a dura prova da una metamorfosi innaturale che l’aveva portato a trasformarsi da arabo musulmano a celtico francesizzato, con i capelli irrimediabilmente ossigenati, per una volta provò ad irrigidirsi. Per inciso, sembra che il detto “mettiti moddu” risalga a quel periodo storico, quando nel tentativo di germanizzare i siculi riluttanti, Federico II cercò di convincerli con l’arma della diplomazia… A lui sembra vada peraltro l’addebito della frase: “viri chi poi ti piace“.
Per carità,
Federico II stava pure bene al
popolino: colto, parlava sette lingue ed era cresciuto giocando in mezzo ai
bambini del Ballarò (senza passare
mai la palla, pare …). Così alla fine, il nostro nuovo prototipo di
siciliano, Ruggero, si fece piacere
la sua nuova armatura all’ultima
moda da cavaliere templare che gli
portarono in dono da Stoccarda (che
peraltro ignorava dove diavolo si trovasse). Nonostante quell’armatura gli
desse parecchi grattacapi logistici,
non ultimo un rompicapo di non facile soluzione: come diavolo grattarsi le
“ncinagghie” (inguine)
quando se ne fossero rese necessarie le circostanze?
Ma questa è un’altra storia…
In mezzo a tanti compromessi, arrivò però puntuale la sua presa di posizione. Si rifiutò categoricamente di chiamare il domani con la parola tedesca “morgen“. Passi per gli astrusi labirinti linguistici che gli avevano fatto digerire i bizantini, passino pure gli innaturali gorgheggi della lingua a cui lo avevano costretto gli arabi. E le acrobazie linguistiche dei francesi che amavano arrotarsi pure le unghie dell’alluce. Ma a tutto c’era un limite. A scatarrarsi la gola con gorgheggi a base di lingua sveva, proprio no! Che lo facessero loro!
E fu così che, a testa bassa, mentre pensava ad un modo più semplice per grattarsi le palle quando gli prudevano, continuava a ripetere: demain… Come un mantra. E a coloro che chi gli imponevano Morgen, lui ripeteva ormai impazzito, fuori di sé: demain, domain, dumain, dumani!! Si era così tanto incaponito che nemmeno l’arrivo di castigliani e aragonesi, qualche tempo dopo, gli fecero più cambiare idea. I primi scesero in campo addirittura con un pezzo da 90, Carlo V, il Re Sole, quello figlio di una pazza e nipote di una inquisitrice … Niente da fare, per mala assonanza, la parola “magnana” gli ricordava troppo le bisbocce e la cafoneria della soldataglia iberica… Ormai aveva deciso, la sua parola per il futuro sarebbe rimasta per sempre: DUMANI.
Fece estrema resistenza, chiudendosi a riccio, anche con la non tenera dinastia borbonica, versante napoletano, che con i vari Ferdinando, Francesco e Franceschiello, avevano provato a cambiargli le carte in tavola. Lui, che nel frattempo, pur di non chiamarsi come loro, si era fatto battezzare Alfio, Cirino (non Pomicino) e Filadelfo in onore ai tre santi martiri. Niente da fare: non si lasciò mai convincere a preferire la parola napoletana: o’ ‘rimani.
Nemmeno da Garibaldi che gli sbarcò praticamente nel cortile di casa, in via Sibilla, a due passi dal Baluardo Velasco. Ad onor del vero, all’eroe dei due mondi, avvelenato con Cavour perché nel frattempo il savoiardo gli aveva venduto (a sua insaputa) la casa a Nizza, non venne difficile solidarizzare con il nostro Alfio.
Ecco come andarono i fatti. A due passi
dal carrubo in cui si erano
acquattati nell’arsura di quella mattina, il nostro siculo che, in questa
ultima tornata aveva assunto il nome di Gnazziu
(avvocato ‘Gnazziu ),
offrendo a Garibaldi l’ennesimo bicchiere di Marsala Superiore Vergine Soleras,
dalle celebri Cantine Pellegrino
(che da lì a poco avrebbero spiccato il volo) e cercando la sua benevolenza, così
lo aveva salutato: “Generale,
siamo felici che siete sbarcati qua oggi… Sappia solo una cosa, lei mi
sta simpatico, la camicia rossa, la sua passione per il vino, il suo gusto per
le freddure ad effetto, il suo colorito bruciacchiato. Insomma, generale, per
me e per molti altri, ci potete pure restare tutta la vita su
quest’isola…”.
Seguì un lungo silenzio da parte di Garibaldi intento a sorbire il suo calice
di Marsala. Gnazziu notò un po’ in imbarazzo nell’aria per essersi preso
forse un po’ troppa confidenza con l’eroe dei due mondi e, per rimediare, tentò
di argomentare:
“Vede, mio caro generale, sarò
brutale ma sincero con Lei: non mi potete
costringere anche Voi, dopo quello che ho passato con greci, romani, bizantini,
arabi, normanni, svevi angioini, castigliani e catalani … Non potete pure voi pretendere che io ogni
volta per decidere il mio futuro mi debba mettere a studiare una lingua
straniera“. Al che il nostro Garibaldi, buttando giù l’ennesimo sorso
e raggrinzandosi in faccia come se ne avesse fin sopra i capelli anche lui,
pronunciò testuali parole: “Avvocà…
A me lo dice ??? Sono anni che combatto con quella testa di minchia di
Cavour…” Silenzio dall’altra parte. E un certo grado di sconcerto.
“Sono anni!” riprese Garibaldi
ormai fuori dai gangheri, dimostrandosi all’altezza della fama che lo dipingeva
come un carattere a dir poco focoso. “Si figuri che per finanziare sta spedizione dei Mille… Abbiamo
dovuto pagare muratori di Bergamo (de hura e de hota), fabbri della val
Camonica, mozzi di Sestri Levante ed abbiamo imbarcato una serie di toscanacci
tutti con senza gorgia che per capirli … una babele che levate!!!…Ed
io che sono di Nizza ?… Con il mio accento provenzale sa che fatica
capirli tutti?”
L’avvocato Gnazziu annuì divertito. Poi ridiventò serio:
“Giuse’ comu si rici dumani in
provenzale ?”
“Douman” fu la risposta di Garibaldi
“Ma veru mi rici ? E la i …
?”
“Sa manciaru, avvoca’ !! tutti cose si mancianu! “ facendo
sfoggio linguistico da siciliano provetto.
“Come qua …” chiosò
l’avvocato per nulla stupito dall’abilità di Garibaldi con l’accento e la
lingua sicula. Per un attimo tornò con il pensiero a quella prima volta quando
a sbarcare sull’isola furono i muscoli di Ercole con tutta la premiata ditta e la pomata dei romani…
“Semu bis e daccapo, Giuse’.. si
dice pure in provenzali?“
“No, ma si dice: jungiti cu chiddi miegghii
di tia e pagaci i spisi”*. Fu la
risposta divertita di un Garibaldi che si sentiva ormai a casa sua.
I due risero a lungo. Dimenticandosi almeno per una volta tutti i problemi di domani.
*frequenta sempre persone migliori di te, e pagale pure: per riconoscenza della loro amicizia.
9 luglio 2022
Gianvito Pipitone
La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri
L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.
Da leggere tutto d’un fiato
Complimenti all’autore
Divertentissimo👏👏👏👏
Non se ne abbiano il direttore e i redattori se prima di leggere i loro articoli e i loro servizi vado a vedere se c’è un saggio di Gianvito Pipitone per iniziare bene la mia giornata. In ogni caso i miei complimenti vanno ad entrambi all’autore e al giornale che pubblica queste bellissime perle del nostro dialetto. Filippo Piccione