Un giovane e brillante magistrato, animato da una grande curiosità intellettuale. Sono in molti, nel trapanese, a ricordare così Giovanni Falcone, in quel segmento meno noto (ma comunque importante) della sua vita e della sua carriera professionale, vissuto a Trapani prima di far ritorno a Palermo. Una stagione su cui si è soffermato l’autore trapanese Salvatore Mugno e che viene racchiusa nel libro “Quando Falcone incontrò la mafia”, pubblicato nel 2014.
Come furono gli anni trapanesi di Giovanni Falcone?
Falcone visse a Trapani dal 1967 al 1978. Qui, in quegli anni, con Rita, la prima moglie, ebbe una vita sociale molto intensa e piacevole. Il magistrato diviene membro del Rotary Club e frequenta anche gli ambienti del Lions, prende parte e sottoscrive iniziative referendarie contro l’abolizione della legge sul divorzio, nei fine settimana partecipa coi suoi amici a cene e balli in casa o nelle discoteche alla moda di Trapani e Erice, frequenta ristoranti, località turistiche e balneari della provincia di Trapani (le Egadi, Pantelleria, Scopello), viaggia in Italia e, per la prima volta, anche all’estero, va a Istanbul, nella Pasqua del 1972.
Vive, insomma, una vita come tutti, non ancora quella blindata che lo aspetterà nei suoi anni successivi.
Quanto quella stagione professionale influì sul suo impegno contro la mafia?
Sull’enorme rilievo dell’apprentissage trapanese di Falcone fino all’uscita di un mio volume (Quando Falcone incontrò la mafia, Trapani, Di Girolamo Editore, 2014) non si era mai indagato: a quali procedimenti penali, “famiglie” mafiose e singoli “uomini d’onore” il giudice antimafia per antonomasia si fosse accostato in quella prima, ampia stagione della sua attività. E neppure si era mai fatto il punto sulle sue complessive cognizioni a proposito della mafia del Trapanese alla luce delle indagini sfociate nel maxiprocesso di Palermo. Giovanni Falcone, già a Trapani, tra il 1970 e il 1971, era, ad esempio, componente della Sezione Antimafia del Tribunale. In molti casi, quest’organo adottò provvedimenti di soggiorno obbligato e di sorveglianza speciale anche nei confrontidi “elementi pericolosi per la vita pubblica”, vale a dire anche molti mafiosi. L’elenco di questo tipo di misure adottate con la partecipazione dal magistrato palermitano è molto lungo.
A parte il memorabile meeting col boss di Marsala Mariano Licari, tanti e non meno rilevanti furono, infatti, in quegli anni gli “appuntamenti” di Giovanni Falcone con uomini di spicco di Cosa Nostra: da Salvatore Zizzo di Salemi alla stirpe dei Rimi, fino ai “virgulti”, appena sfiorati dal magistrato, di Vincenzo Virga e Francesco Messina Denaro (destinati a diventare capibastone, rispettivamente, del “mandamento” di Trapani e dell’intera provincia), oltre ad avere incrociato molte altre centinaia di mafiosi di medio e piccolo cabotaggio.
Fece, insomma, la conoscenza di un campionario copioso e variegato degli esponenti principali e dei “gregari” della criminalità organizzata dell’intera provincia di Trapani, dalla cui analisi il magistrato ricavò certamente idee assai precise sulla forma mentis e sul modus operandi dei mafiosi.
Per quanto riguarda le funzioni assunte da Giovanni Falcone durante la sua permanenza a Trapani, esse furono le più varie: da Sostituto alla Procura della Repubblica a giudice istruttore, da giudice civile a magistrato di sorveglianza, a giudice fallimentare e così via.
Falcone, peraltro, a Trapani ebbe amici psichiatri e psicologi e, perciò, in casa sua, oltre che in occasione di convegni e conferenze, il dibattito intorno a tematiche di tipo psicologico divenne quasi abituale.
Fu in questo contesto, probabilmente, che cominciò a maturare quello che poi sarebbe diventato il “metodo Falcone”, basato sull’assunto che per comprendere l’altro, bisogna provare a pensare alla sua maniera, una tecnica che attinge a metodologie tipiche della psicologia.
Tommaso Buscetta, ad esempio, che non si era piegato neppure alle torture e alle violenze della dittatura brasiliana, non seppe resistere alle blandizie, per così dire, del magistrato palermitano che, in lui, oltre a riconoscere il criminale, vedeva l’immagine che il capomafia aveva di sé: una sorta di generale di un esercito di “uomini d’onore”. Ne penetrava, insomma, il modo di sentire e di pensare, inducendolo ad “aprirsi”.
Trapani come accolse la notizia della strage di Capaci?
Trapani capoluogo, per quanto io possa ricordare, rimase scossa e attonita, come tutta la Sicilia. Ma la stessa cosa non si può certo immaginare né dire per quanto riguarda gli ambienti mafiosi. Ad esempio, pare che, a Marinella di Selinunte, a Castelvetrano, il giorno seguente all’attentato, il 24 maggio 1992, un certo Matteo Messina Denaro, allora non ancora latitante, e alcuni suoi amici quel pomeriggio brindarono con il Dom Pérignon in un pub lanciando poi in aria, in senso di euforia e compiacimento, le coppe in cui avevano bevuto. Il boss pare che, a differenza dei suoi amici, prima di spaccare il calice chiese il permesso al titolare del locale. E che, congedandosi, abbia anche lasciato un supplemento di prezzo per il danno prodotto. Chissà cosa festeggiavano!
Ma, tornando alla brava gente comune, passata l’emozione e la commozione del momento, è difficile dire se e quali cambiamenti quel terribile evento abbia davvero prodotto nella nostra terra e nella nostra mentalità. E, dopo tutto, c’è sempre pronta la giustificazione secondo cui gli “eroi”, infine, sono inimitabili.
L’impegno antimafia torna in diverse opere di Salvatore Mugno: ci sono dei punti di connessione tra Giovanni Falcone, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Mauro Rostagno?
Non ho mai pensato ai miei lavori su tematiche e personaggi mafiosi o vittime della mafia come uno specifico “impegno antimafia”, ma come qualcosa di più ampio e radicale: un tentativo di trovare un modo in cui anch’io possa stare al mondo, in particolare anche in questo “piccolo mondo” che sono la Sicilia e Trapani. Se si agisce per cercare e affermare la propria dignità e la propria libertà, nei limiti della condizione umana s’intende, ritengo che si finisca naturalmente con l’essere antimafiosi, non per scelta moralistica, posticcia, “dovuta”. Questo è ciò che avevano in comune Rostagno, Ciaccio Montalto e Falcone: provare ad essere degli uomini, se stessi, senza sopraffare altri uomini, concetto difficile, quasi impossibile, da far capire a un mafioso, ma anche a tanta brava gente comune.