La rivoluzione non è probabilmente nelle corde dei siciliani. A fronte della lunga e complicata storia dell’isola, che non ha risparmiato quasi mai alla sua disgraziata popolazione gravi episodi di sottomissione ed ingiustizie, ci si aspetterebbe di trovare una certa densità di casi di insubordinazione al potere costituito. Un’agitazione popolare, un tumulto di piazza, una sommossa o un’insurrezione di qualsivoglia natura … sparsi a macchia di leopardo, un po’ qua, un po’ là. Una serie di reazioni, dunque, a difesa di quei diritti basilari spesso negati alla gran parte delle sue classi popolari, in ogni tempo vessate e ridotte alla fame e alla disperazione.
E invece? L’impressione è che, anche a voler scandagliare il verso della Storia siciliana, si faccia una gran fatica a scovare pagine sapide di rivolte, avventure e barricate che farebbero probabilmente la felicità degli appassionati del genere. O almeno, precisiamo, prima che tutto questo accadesse “per importazione” con lo sbarco di Garibaldi e i suoi Mille.
Certo, non ci cambia la vita oggi sapere se i nostri avi abbiano venduta cara la loro pelle in difesa della propria dignità. Ma qualche volta si vive anche di piccole soddisfazioni. Ad esempio, per riscaldarci romanticamente il cuore di sciovinistico orgoglio. Nella convinzione, peraltro, che esplorare il passato ci racconti di noi spesso più di quanto non ci dica il presente.
Gli scozzesi, gli irlandesi o anche i catalani (per restare in Europa), potrebbero aver ereditato questo senso di verace appartenenza collettiva, per essersi spesso stretti l’un con l’altro contro l’invasore di turno o, per avere provato a reagire contro l’oppressione del potere tiranno, muniti di estrema consapevolezza della propria condizione di subordinazione.
Oppure, prendiamo i francesi, cugini acquisiti degli italiani, considerati, a ragione o a torto, avversari naturali dagli opponenti italici. Con una differenza fondamentale, di non poco conto. I francesi finirono per intestarsi la più famosa delle Rivoluzioni, quella che contribuì a creare nell’indole transalpina una scorza dura, quasi impermeabile, contro ogni sentore di dittatura. Lezione imparata e mai più dimenticata. E vantaggio psicologico di non poco conto rispetto ai popoli che non ne hanno mai preso piena coscienza.
Discorso a parte quello dei russi che, in risposta alla disperazione sociale in cui furono sprofondati dall’infame politica zarista, seppero trovare all’inizio del Novecento la forza per una presa di coscienza forte contro i loro oppressori, dando vita alla famosa Rivoluzione d’Ottobre. Tranne poi bruciarne gli effetti, per essersi incuneati attraverso il contorto budello di un regime totalitario e autoreferenziale.
E in Sicilia? Alla nostra Isola non sembrarono toccare in sorte rivoluzioni. Almeno non quelle prodotte in loco. Oppure, per meglio dire, se mai i barlumi di una rivoluzione sembrarono sfiorare talvolta alcune delle sue città, è quasi certo che i siciliani non seppero né riconoscerne gli effetti né tantomeno godere appieno dei suoi benefici psicologici.
E dire che i siciliani, in particolare, avrebbero avute tutte le ragioni per rovesciare e mettere a ferro e fuoco i loro tiranni. Volendo fare un rapido conto, se si esclude l’episodio alla base della cacciata dalla Sicilia dei francesi angioini, con gli eventi passati alla storia come i Vespri Siciliani, nel 1282, di rado i siciliani finirono per imbracciare le armi per liberare le proprie città. Quasi mai.
Dico “quasi” perché in realtà anche in Sicilia si respirò, seppure per un breve arco di tempo, l’inebriante afflato di una rivoluzione “autoprodotta”. Autoctona. E curiosamente, tutto questo accadde non ai danni dello straniero, contro cui in ogni tempo il siciliano avrebbe potuto trovare mille scuse per ribellarsi. Ma contro i fratelli napoletani.
E così dunque accadde quello che non era mai accaduto: che il popolo palermitano e poi siciliano tutto, stanco dei lunghi anni dei soprusi borbonici, si era (finalmente) deciso ad insorgere in massa contro il mal governo di Ferdinando II e la sua corte napoletana.
Era il 12 gennaio del 1848 quando un’insolita e variegata folla si raccolse nel centro di Palermo, dalla Cattedrale fino al quartiere della Kalsa. Da qualche giorno circolavano in città diversi manifesti e volantini, incitanti all’insurrezione generale. Uno di questi, fra altri più espliciti, recitava quasi sibillino: “il giorno 12 gennaio, all’alba comincerà l’epoca gloriosa dell’universale rigenerazione“.
Guidati da due carismatiche figure liberali, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, tricolore alla mano, i patrioti formarono un “Comitato Provvisorio”, con sede nel quartier generale in piazza di Fieravecchia, ora Piazza Rivoluzione. Per diversi giorni la città venne devastata dai combattimenti tra le forze in campo e neppure l’arrivo tempestivo dei rinforzi borbonici da Napoli riuscì a disperdere gli insorti.
Dopo copiosi bombardamenti sulla folla e cruenti scontri per tutta la città, il 17 gennaio furono avviate le trattative: il Comitato chiedeva il ritorno alla “Costituzione Siciliana” del 1812 e il riconoscimento di una più larga autonomia. Ma il re Ferdinando rigettò con disprezzo le richieste dei rivoluzionari.
Rinfocolata la rivoluzione e centralizzati gli sforzi, gli insorti riuscirono già il 25 gennaio a prendere possesso del Palazzo Reale, sede del potere borbonico, costringendo funzionari e parecchie delle truppe regie ad imbarcarsi nottetempo per Napoli. Nel frattempo, mentre a Palermo si combatteva porta a porta, la rivoluzione era già divampata su tutto il resto dell’isola: Catania era insorta il 25 gennaio, Messina il 29 e il resto delle città più importanti sarebbe seguito a distanza di pochi giorni.
Così, dopo circa due mesi dalla scintilla iniziale, il 25 marzo 1848, fu proclamato ufficialmente il Regno di Sicilia con il Parlamento che tornava in attività con due camere (quella dei pari e quella dei comuni) che elessero Ruggero Settimo, come primo presidente del consiglio. Già il giorno dopo fu varato il primo governo del Regno che vide la presenza di grandi figure liberali come lo storico Michele Amari, il patriota Mariano Stabile, il principe di Butera Pietro Lanza, il barone Pietro Riso, e il futuro primo ministro del nascente regno d’Italia, Francesco Crispi. Nessuno dubbio sulla scelta del tricolore come bandiera del regno, con al centro il simbolo della Trinacria. Mentre in breve venne creato l’esercito nazionale siciliano, in divisa grigio-blu con coccarda tricolore, e una Guardia Nazionale con competenze di pubblica sicurezza.
A causa di un “disguido”, però, il sovrano che avrebbe dovuto essere nominato dal Parlamento, il secondogenito dei Savoia, Alberto Amedeo, non si presentò mai sul trono di Sicilia. In breve, l’indecisione politica e lo stallo che ne seguì, fini per avvantaggiare Ferdinando Borbone e il suo esercito napoletano che, al termine di un lungo periodo di bombardamenti (si ricorda in particolare il lungo e cruento assedio di Messina nel settembre del 1848) riuscì a riprendere in mano le redini del regno di Sicilia.
In tutto ciò, il “re bomba”,come venne immediatamente ribattezzato, venne supportato dalle capacità diplomatiche del suo luogotenente Carlo Filangieri, e dai metodi non sempre ortodossi del ministro dell’interno, il temibilissimo Salvatore Maniscalco. Ma questa è già un’altra storia: iniziava per la Sicilia un complicato decennio che avrebbe portato rocambolescamente all’Unità d’Italia, in un clima gravido di sospetti e regolamenti di conti, durante il quale, il ristabilito governo borbonico dovette spesso usare il bastone e la carota per tenere a bada gli animi e fare inghiottire ai siciliani il rospo dello status quo ante.
Nonostante l’amaro epilogo, gli eventi del quarantotto siciliano ebbero una vasta eco nel dibattito pubblico europeo di allora. Palermo fu considerata la prima città in Europa ad innescare la cosiddetta “Primavera dei popoli”, la più straordinaria delle stagioni di moti rivoluzionari che in pochi decenni cambiarono il volto a buona parte dell’Europa. Dopo Palermo fu la volta di Napoli, e poi Parigi, a marzo, i cui moti portarono alla nascita della “quarta Repubblica“. Sempre a marzo si innescarono i moti lombardo-veneti contro l’invasore austriaco. Mentre alla fine del 1849 fu il turno di Roma dove cominciò a sventolare il tricolore sotto la Repubblica Romana.
Mica male per una Sicilia troppo spesso considerata pavida e remissiva nei confronti dei suoi dominatori e che, invece, a ben vedere seppe insegnare a mezza Europa il modus operandi per liberarsi dei loro “ospiti” indesiderati con una “exit strategy” concentrata in poche tappe e in pochissimi giorni. Salvo poi dimenticare, ciclicamente, di tenere sempre accesa la fiammella della libertà, senza farsi sopraffare dalle tante (troppe) amnesie che spesso sembrano attanagliarla. Ma anche questa è un’altra storia.
Fra qualche giorno cade il centosessantaduesimo anniversario dello Sbarco di Garibaldi a Marsala, l’11 maggio 1860, e dell’entusiasmante epopea dei suoi Mille. Sarebbe bello rispolverare quelle lunghe e appassionanti pagine della Storia Patria, senza la patinata retorica che le ha spesso rese distanti, e forse anche indigeste. Le apprezzeremmo ancora di più. E forse la libertà di cui godiamo oggi avrebbe un sapore ancora più dolce.
Gianvito Pipitone
La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri
L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.