Quasi la metà dei residenti nel sud e nelle isole (46,4 per cento) è a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24 per del centro e il 17,4 per cento del nord. Lo ha rilevato ieri l’Istat nel rapporto sulle “condizioni di vita e reddito nell’anno 2015”. Ora noi che siamo malpensanti di natura, dubitiamo che i signori dell’Istat abbiamo elaborato i dati soltanto in questo inizio settimana. Non li hanno diffusi per non incidere sul voto di domenica scorsa. Come se i cittadini, soprattutto quelli inclusi in senso negativo nella statistica, avessero bisogno dei dati per sapere che stanno male. Lo sapevano e basta. E infatti sono andati a votare e si è visto come. Torniamo ai risultati. I livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4 per cento), che distanzia la Puglia (47,8%) e la Campania (46,1%). Viceversa, i valori più contenuti si riscontrano nella provincia autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) ed Emilia-Romagna (15,4%). Inoltre, rivela l’Istat, quattro individui su dieci sono a rischio di povertà in Sicilia, contro i tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Livelli di grave deprivazione materiale più che doppi rispetto alla media italiana si registrano in Sicilia e Puglia dove più di un quarto degli individui si trova in tale condizione. La Sicilia (28,3%) è anche la regione con la massima diffusione di bassa intensità lavorativa, seguita da Campania (19,4%) e Sardegna (19,1%). Andate a guardare i risultati decentrati del referendum, e vi accorgete che dove più forte è il disagio, più si è “punita” la proposta che arrivava dal governo del Paese. Ora noi siamo convinti che il premier non è depositario di tutte le responsabilità che gli si attribuiscono (certi renziani invece…), ma l’avere scelto di aiutare altri settori (leggasi banche), invece di prendere di petto i problemi della parte più debole della società, ha prodotto questo risultato. C’entra con il quesito referendario? No, forse no. Ma è stato il modo, democratico e silenzioso, di protestare. Dalla classe dirigente del Paese deve arrivare ora una tendenza al cambiamento, forte e reale. Altrimenti arriveranno tanti altri no. Sotto forma di cosa non lo sappiamo, ma arriveranno certamente.
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