di Silvia Ciancimino1
1 Questa intervista si trova in appendice a Scritture collettive. Reti, anonimia, autoralità diffusa, tesi di laurea (di Silvia Ciancimino) non pubblicata, relatore Prof.ssa Laura Restuccia, Università degli Studi di Palermo, a.a. 2013-2014.
- Volendo recuperare alcune recenti considerazioni di Gabriele Perretta sullo stato dell’arte a noi contemporanea, egli, problematizzando l’irrimediabile metamorfosi e dell’opera e dell’autore che la concretizza (come fenomeno endemico ai complessi regimi di accumulazione di capitale immateriale e monetario), sostiene: «l’artifex è più vicino ad un esangue artigiano che si allena ad eseguire un mandato progettuale e teorico ormai staccatosi dal contesto del singolo soggetto […]. Nei tempi delle comunità virtuali la diffusione e la distribuzione dell’arte cresce ogni giorno e si è trasformata in una pratica dilagante […]. Di fronte alla composizione [di un’opera] non si prova più quel sacro timore che accompagna l’immagine del genio. Le comunità, con una ironia ambiguamente nascosta da un’anonima autodefinizione rimettono ancora una volta in discussione il senso dell’arte. Esse, contro il timore di Platone, ci dicono che l’arte è dappertutto e gli autori in ogni luogo […]. La filosofia sociale del ready made ha fatto il suo lavoro definivo». Se sembra affermarsi, come cifra dello statuto dell’arte contemporanea (nella sua estensione più radicale), una persistente variazione che ridiscute lo status della soggettività “singolare” (qualora questa sia mai esistita, al di là delle speculazioni astratte di certe vulgate concettuali), i vostri progetti sono collocabili all’interno di una tendenza effettivamente in atto. Dunque, posto che la scrittura collettiva, da un punto di vista formale, ha avuto una occorrenza a intensità intermittente nella storia della letteratura (quantomeno occidentale), a cosa risponde la volontà di scardinare certi conservatorismi in difesa della ragione “letteraria”?
R. Non è raro avvertire in molti (siano essi artisti, poeti, letterati, critici o semplici uomini e cittadini del mondo) un senso di sgomento e di nostalgia per le perdute qualità della tradizione e delle sue divisioni funzionali tutte le volte che il divenire storico-temporale sommuove datità naturali e artificiali. Nulla rimane fermo. Le metamorfosi delle cose e delle relazioni che riguardano il mondo (vecchio e nuovo) che abbiamo in comune – che abitiamo e che ci abita – sono, però, la condizione strutturale del suo essere come divenire. Se ad esso si affianca anche un altro mondo in comune più artificiale, più ibrido e plurale di prima – quello virtuale o della rete www del cyberspazio (tanto per non divagare molto) –, che impone revisioni e modifiche, non c’è da avere nostalgia. Anche perché, paradossalmente, questo mondo virtuale non ha meno realtà e relazionalità interattiva con l’esistenza di ciascuno e di tutti, come è evidente dagli effetti di realtà che ha nella vita di ogni giorno e nei comportamenti sociali sia individuali che di gruppo. Così se la vecchia soggettività singolare, in una contestualità mondana infondata e sempre più complessa e della relazione molteplice, mescolata e rizomatica (Gilles Deleuze), perde la sua qualità di ipostatizzata sostanza individuale o di identità monolitica e permanente, cui non sfuggiva neanche quella dell’unicità sacrale dell’autore quale “genio” – l’artista quale figura superiore e creatore unico che riassume in sé tutte le capacità e le competenze –, c’è solo da aprirsi dei varchi. Il compito e l’impegno delle nuove soggettività, soprattutto artistiche e poetiche, è quello di praticare dei buchi attivi nella rete dell’interattività e dell’interdipendenza rizomatica della rete; di muoversi dentro le nuove figurazioni e decidere (come in un laboratorio sperimentale) il da farsi del pensare, dell’immaginare e dell’agire insieme (il mondo complessificato è sempre un mondo in comune e relazionale comune). E ciò per non rimanere schiacciati dai nuovi automatismi della società dell’immateriale del capitalismo cognitivo e simbolico, tutto teso ad omologare, sorvegliare e controllare entro un vivere e co-vivere mercantile e toto corde mercificato e deresponsabilizzante, poiché privilegia la trasmissione di stereotipie connettive subordinate ai consumi passivi e passivizzanti.
Se è vero che nei tempi delle comunità tecno-virtuali sofisticate l’arte è diventata una pratica più diffusa, non per questo essa perde il suo senso, o che l’artifex possa essere prefigurato solo quale «esangue artigiano che si allena ad eseguire un mandato progettuale e teorico ormai staccatosi dal contesto del singolo soggetto» (Gabriele Perretta, art.comm. Collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità acefale nella pratica dell’arte: oltre la soggettività singolare, 2002), in quanto parte senza parte di un mondo completamente automa, e mosso da neutrali algoritmi elettro-informazionali. Né il vecchio mondo né quello nuovo perdono quella eccedenza d’essere di “mondo in comune”, cui si abbevera ogni artista e poeta (figura singolare plurale e/o collettiva), o soggettività singolare sociale non estranea all’intrecciarsi del dinamismo relazionale dell’interdipendenza interattiva; e tanto più se non è sorda all’appello della libertà (Albert Camus ricordava in L’uomo in rivolta del 1951 che «è l’arte che ci costringe ad essere combattenti» e testimoni della libertà) e alla cooperazione orizzontale dell’open source. Un’arte cioè che faccia i conti con il mondo plurale in cui vive e opera, e perciò capace di non perdere l’iniziativa autonoma e dirompente, ribelle, politica e unitamente ristrutturantesi in esperienza di soggettività plurali e soggettivazioni singolari e collettive dall’identità ibrido-meticcia. E l’arte che agisce in un mondo plurale – scrivono Andrea Balzola e Paolo Rosa – non può non lasciare la propria autoreferenzialità per farsi “politica”, ovvero porsi e agire come arte “fuori di sé” (Andrea Balzola e Paolo Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età pos-tecnologica, 2001). Qui la figura dell’artista è quella cioè capace di uscire dalla propria chiusa identità individual-individualistico-sostanzializzata e di rifarsi azione comunitaria (costruirsi come un essere-gli-uni-con-gli-altri) o rete relazionale e critica con altri artisti, nonché collaboratori/cooperatori liberi lì dove la stessa azione progettuale dell’opera richiede ideazione, progettazione e realizzazione artistica impegnata. In tal senso, e in esergo alla loro opera a due mani (L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica), Andrea Balzola e Paolo Rosa pongono, e qui fa caso ricordarlo (seppur in versione abbreviata), un pensiero alquanto significativo nella direzione proposta: «Seppure involontariamente noi artisti siamo impegnati. Non è la lotta a renderci artisti, ma è l’arte che ci costringe a essere combattenti. […]. Per la stessa funzione egli è impegnato nelle profondità più inestricabili della storia, là dove soffoca la carne stessa dell’uomo».
Oggi la rete favorisce tutto questo, e lo permette sempre più estesamente (si parla del popolo della rete, circa due miliardi di cybercittadini) anche sul piano delle resistenze politico-conflittuali e di sabotaggio alla democrazia fascista della ristrutturazione dell’ordine capitalistico. E qui (per ragioni di spazio) basta il richiamo al fenomeno delle azioni di dissenso erosivo esemplare dell’“hacktivismo”. Il mondo della rete non è, oggi, solamente quello che può riflettere unicamente una duplicazione simulativa della vita dei naviganti o essere l’offerta passivizzante di un dimensione “seconde life” isolante e ludico-estetizzante, che bypassa in modo subliminale modelli di vita ed economico-consumistici dominanti. La rete, con la sua struttura rizomatica e cooperativa aperta, interagisce attivamente e sperimentalmente con la vita reale e le identità dei soggetti individuali e sociali; e ciò fino a fare emergere concretamente identità ibride e collettive che sul piano dell’arte e delle scritture letterarie e poetiche – limitando l’egoità dell’Io sovrano e proprietario naturalizzata – sono sorgenti di opere autoriali collettive.
Tocchiamo qui il piano della scrittura collettiva e, per quel che ci riguarda (criticamente), la sperimentazione del soggetto collettivo e anonimo “Noi Rebeldía”. Il nome che ormai da alcuni anni gira in rete con testi sperimentali in edizione elettronica prima e in edizione cartacea poi. Azione non certo nuova, questa delle scritture a più mani e sine nomine, nella storia delle scritture artistico-letterarie e poetiche, ma tendenzialmente e tendenziosamente volta a mostrare che se il mondo cambia anche le modalità scritturali e testuali del far letteratura e poesia come pratica significante cambiano celermente (pur conservandosi come tali o scrittura aseica), se la mano e l’identità non sono più solamente quelle dell’ego o dell’alter ego, ma quelle di un “noi” o dell’“io noi” (Antonino Contiliano, “Fermenti” per un manifesto della critica collettivo, in «Fermenti», n. 241/2014; L’avanguardia del collettivo anonimo “Noi Rebeldía”, in «Fermenti», n. 242/2014). Un noi che collabora senza perdere la propria distinzione di genere o di stile, come scrive Francesca Medaglia (La scrittura a quattro mani, 2014), o (sempre la stessa Medaglia, che si è occupata delle scritture poetiche del soggetto “Noi Rebeldía”) in forme di diversa sperimentazione in un mondo delle identità sempre più ibride e meticciate o delle relazioni mescolate e plurali, e su cui, per inciso, si è intrattenuta la ricerca estetico-poetica di Édouard Glissant (Poetica del diverso, 1998; Poetica della relazione, 2007). Una metamorfosi, scrive Francesca Medaglia (La scrittura a quattro mani, 2014), cui non sfugge la stessa trasformazione dell’identità dei soggetti protagonisti delle testualità po(i)etiche dell’arte e delle lettere. L’“autore” ha perso i vecchi connotati dell’individualità sostanzializzata e si presenta con quelli di un molteplice ibridato. Un soggetto plurale. Qui l’io si scioglie nel collettivo sociale del gruppo. Se la scrittura ha perso in termini di stile ego-individualizzato, ha sperimentato però quello del self della “Molteplicità” e della semiosfera creola. Una categoria testuale, questa, che permette di parlare propriamente dei fenomeni di ibridazione ormai in itinere e diffusi. Un processo che tocca, ormai irreversibilmente, le identità dei soggetti singoli e sociali quanto gli stili e i linguaggi, e differenzia le scritture “a quattro mani” in scritture di cooperazione (ogni autore interviene per la competenza, rimanendo individuabile per specificità tematica, stilistica, genere letterario o di gender (il genere come identità maschile o femminile– uomo, donna) e vere e proprie scritture di fusione creola (dove è pressoché impossibile distinguere le identità stilistiche, perché l’“empatia” giova a omogeneizzare le parti). Il lavoro della nostra (Francesca Medaglia) poi segue i passaggi di transito fino all’attualità del contemporaneo laboratorio del soggetto plurale Wu Ming, passando dal Futurismo e dal Surrealismo (movimenti che hanno praticato la scrittura a quattro e più mani e intesi a sperimentare il superamento del self personale e chiuso dell’individualismo autoriale).
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Nella strutturazione o adesione a un progetto di scrittura collettiva ci sono stati pre-giudizi (culturali) da superare? Esistono differenze di approccio alla scrittura, di metodo tra le vostre composizioni “solistiche” e quelle di scrittura comunitaria?
R. L’adesione alla proposta di scrittura collettiva e anonima ha avuto risposte differenziate. Diciamo subito che non pochi sono stati i casi che hanno declinato l’invito non rispondendo alla domanda, o dichiarando semplicemente di non essere interessati, o non partecipando perché non era presente la firma individuante il contributo, o perché non credono nella sperimentazione collettiva e rimangono ancorati al vecchio io individuale, l’unico autorizzato a firmare l’opera realizzata. Anonimo però, qui va detto, non necessariamente significa non rivelare il proprio nome. Il nome, privo però delle decorazioni editoriali, infatti, può essere reso pubblico solo come una delle parti che ha costruito il testo. Nella scrittura collettiva di “Noi Rebeldía”è il testo ultimato e finale che conta, partendo dal presupposto di un’idea di fondo e del motivo che l’articola in versi secondo alcune indicazioni di fondo e generali. Ciò cui si mira è il linguaggio poetico che lo contraddistingue come insieme testuale intrecciato temperato (miscelato), il cui montaggio ibrido/meticcio, ai diversi livelli, è teso soprattutto a qualificare semiopoeticamente il linguaggio testuale stesso nel rispetto di alcune regole. Regole preposte e proposte come condizione della partecipazione ad ogni poeta che volesse prendere parte alla sperimentazione del soggetto “Noi Rebeldía” (Lo schema di queste regole minimali è stato reso noto sia nella versione in rete sia nell’edizione cartacea – edizione CFR – che accompagnò il progetto scritturale del 2010 e del 2014. Le due esperienze si differenziano solo nella posizione dell’incipit che dava l’avvio alla composizione. Ma per i dettagli rimando al testo intero, pubblicato insieme al lavoro poetico editato).
Le differenze di scrittura e di metodo non sono state, per chi si è cimentato con questo esperimento, un ostacolo insormontabile; così come non è stato un altro ostacolo inaggirabile quello dello stile e della libertà di espressione compositiva con cui ogni partecipante contribuiva al montaggio del testo collettivo finale stesso e anonimizzato. Non solo si concordava su un incipit (regolato anche nel numero dei versi) che già annunciava l’idea portante della com-posizione, ma anche sul fatto inoppugnabile dell’esistenza di un comune e storico general intellect po(i)etico. Un patrimonio di competenze e di tecnologia generale pre-esistente e disponibile per tutti e ciascuno in quanto strutture generiche elaborate nel corso temporale dalla capacità e dalla potenza della poiesis (verbale e non verbale) degli uomini (bene generale e comune, dunque). Un fondo comune che, come la lingua che è sistema simbolico pre-individuale, avrebbe sostenuto la possibilità concreta di lavorare open source a un testo letterario e/o poetico collettivo e anonimo. Abbiamo chiamato, per similarità e differenze, questa tecnologia (logica, retorica, ritmica, fonosemantica, ecc.) poetic general intellect (in analogia al general intellect di cui K. Marx ha anticipato l’impiego produttivo nell’industria delle macchine: le potenze della mente umana riconvertite come tecno-cervello macchina che mima le capacità della forza lavoro reale degli uomini). Il complesso cioè tecno-concettuale-immaginativo generico, che oggi è la nuova forza produttiva incalzante e circolante dell’economia immateriale-cognitiva del postfordismo. E questa tecnologia non riguarda solamente la produzione dell’economia e dell’economia politica tout court. C’è infatti anche una produzione dell’economia poetica che non ha meno bisogno di un comune general intellect poetico, ovvero di un generico e generale bagaglio di bordo che consente di parlare e scrivere per mano di un “noi” meticcio, soggetto collettivo e anonimo. Un noi-pronome che appunto per essere il punto di vista di un soggetto altro, o collettivo e generico quanto capace di esteriorizzarsi e relazionarsi impersonalmente, della natura simbolica e astratta non sostanzializzata può godere di una schematicità eterologica mescolata. I pronomi che accompagnano e presiedono l’azione dei verbi della nostra grammatica (et alia) sono: io, tu, egli, noi, voi, loro.
Il “noi”, nell’accezione di cui sopra, si può considerare inclusivo dell’“io” e del “tu” miscelati. E, diversamente da come afferma E. Benveniste, crediamo, gode della stessa impersonalità di cui gode l’egli. Il pronome, questi, che pur estromettendo il soggetto personale (il sovrano perché proprietario esclusivo del nome proprio e del dominio che esercita sulle cose come privilegio sancito dalle fondamenta della cultura e del diritto di origine romana) non perderebbe però la possibilità della relazionalità tra soggetti, pur non essendo più né io né tu. Mentre il noi nel punto di vista di Benveniste conserverebbe sia l’io che il tu come identità rovesciate trascendentali, o immagini perfettamente speculari, simmetriche. E stante così la questione, al noi, essendo visto come un insieme di elementi immutabili e altrettanto trascendentale, è impedito di qualificarsi con la stessa impersonalità dell’egli. (Roberto Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, 2007). Ma il tu anziché essere visto e formalizzato come il rovescio speculare dell’alter ego può essere pensato come un ego alter (eteros) e non un io rovesciato, in quanto identità in divenire e variazione storica che meticciandosi si metamorfa, sì che l’impersonale del noi non sarebbe più un sentiero impensabile ma una miscela in cui il due (io-tu) non potrebbe più mantenere fermo il self originario. Significherebbe piuttosto un esserci o un essere-con una linea di confine che permette criticamente di pensare e agire come una identità costituente nuova e ibrida, o una potenza di divenire-essere disponibile pronta a rapportarsi soggettività collettiva personale-impersonale, e insieme inscindibilmente singolare plurale. Quel divenire-altro (divenire-animale, divenire-albero, divenire-minerale, divenire-x, y, z …) di cui parla G. Deleuze. Ma non è fuori luogo qui ricordare, analogicamente, e per inciso, che esistono culture e aggregazioni socio-politiche in cui il nome identificante l’individuo e la sua singolarità è solo una differenza relazionale, e questa priva di quei connettivi logici delle nostre grammatiche, che sono funzionali alla radicale divisione dell’io e del tu. In questi contesti l’individualità del singolo (l’io) è niente al di fuori del noi collettivo del gruppo: “Giovanni noi” recita infatti la cultura socio-politica Wintu! (America Latina). Il “Giovanni noi” – io noi – è il soggetto di una cultura politica che non conosce, come indicato, il pronome io a sè stante; l’individualità è solo una specificazione del noi, una sua variazione. Il titolare di un enunciato e di un testo, crediamo, è sempre il noi e l’individualità desovranizzata è l’“io noi”. Presso il contesto di cui ci occupiamo, il titolare degli enunciati poetici è il soggetto collettivo poetico anonimo Noi Rebeldía (Noi Rebeldía 2010-2012, We are winning wing; Noi Rebeldía 2014, L’ora zero). La sua nascita e la possibilità di sperimentare la sua prima proposta è stata accolta e lanciata dalla “Rivista Online Del Sindacato Scrittori Italiani”, http://www.retididedalus.it. I nomi dei partecipanti sono la variazione differenziale del comune del noi che, in certa maniera, si può dire, ne costituisce il fondamento anonimo, in quanto generico e generale.
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Quando diciamo e leggiamo (in copertina, cartacea e/o digitale), tra gli altri: Wu Ming (e qui mi riferisco sia ai progetti dell’intero “complesso”, sia ai progetti di scrittura comunitaria condotti a mezzo web), SIC (Scrittura Industriale Collettiva), Noi Rebeldía agisce lo scacco dell’anonimia de-identificata sul lettore, sul mercato. Quale senso ha, per il soggetto collettivo poetico Noi Rebeldìa, l’anonimia, per l’appunto?
R. L’anomia praticata nella scrittura collettiva mette sul tappeto della discussione una problematica molto articolata, variegata e sfumata. Tutto ciò richiederebbe altro tempo e spazio per argomentare e legare, come richiederebbe non avere certi limiti che chi scrive invece si riconosce e non vuole forzare oltre il dovuto. Succintamente tuttavia si è già tentato di dare qualche indicazione schematica di riflessione analitica e propositiva circa l’identità autoriale non individualizzata del soggetto collettivo anonimo, che, sotto la designazione delle cifre simboliche citate (per esempio: Wu Ming, SIC, Noi Rebeldía), si è sperimentato sia sul piano della produzione artistica o letterario-poetica, che come offerta all’ipotetico lettore tramite la distribuzione e circolazione del mercato editoriale. Un mercato che, oggi, grazie anche al sistema rete web, è cambiato profondamente consentendo le iniziative in proprio o, come si dice, anche print on demand. Certo il mercato editoriale che può garantire l’identità dell’autore già individualizzata, riconosciuta e mediata facilita il lettore nella richiesta di identificazione della persona con il suo nome e cognome di proprietario specifico. Ma non per questo necessariamente l’evitare lo scacco deidentificante risolve tutti i problemi legati al riconoscimento del senso della testualità artistica e del suo essere linguaggio simbolico particolare. E ciò in specie se l’uno e l’altro si pongono come impegno di comunicazione non consumistica e frattura del consenso acritico nel tempo della società del neocapitalismo espanso; quello della rimodernizzazione elettro-informazionale cognitiva e degli automatismi algoritmici che della comunicazione e dell’immateriale hanno fatto la propria forza produttiva, sfruttando l’autovalorizzazione della potenza creativa propria di ogni mente singolare e collettiva cooperativa. Un contesto mescolato e ibrido in cui l’astrazione intellettiva e immaginaria è confinata entro formule e combinatorie tali che hanno assunto la veste di una materialità artificiale onnipotente e sussunto il tempo della vita, come ha scritto per esempio Toni Negri, interamente sotto il tempo del capitale, mentre lo sfaldamento della società di massa dà vita alla moltitudine delle singolarità e delle pluralità e a nuove identità, ibride. Appunto. Il problema del lettore, che si trova di fronte alla scrittura plurale e anonima e all’interrogativo dell’identità autoriale, allora si pone nei termini di chi deve percepire e comprendere schemi mobili e molteplici – come quando si trova davanti all’identità di un paesaggio, o di una superficie marina, o di un clima che varia continuamente per delle dinamiche imprevedibili del sistema relazionale in divenire – e deve decidere come reimpostarne il configurarsi e riconfigurarsi della stessa identità. L’altro punto, per quel che tocca uno degli aspetti peculiari del soggetto collettivo e anonimo della scrittura poetica “Noi Rebeldía”, è quello di far parlare il linguaggio stesso e complesso della poesia; un linguaggio, questo, segnico-semantizzante già di per sé non standardizzabile quanto irriducibile agli “automi” algebrici che governano i vari software dei dispositivi azionanti l’industria dell’informazione e della comunicazione teleinformatica. L’industria cioè che mette a lavoro il capitale simbolico, quello dell’immaginario e delle immagini, producendo significati di consumo e di sudditanza, e reificando i rapporti tra i soggetti come rapporti tra immagini e viceversa (ieri erano i rapporti tra cose che venivano scambiati come rapporti tra persone). Vero è anche che (in generale) il mondo dell’arte e della “creatività” po(i)etica è pure una fonte di approvvigionamento e appropriazione da parte del nuovo modello industriale postfordista, ma è pur vero ancora il fatto che il lavoro creativo può essere reificato e mercificato solo quando i suoi valori formali (portatori in sé simultaneamente di polisemia determinata-indeterminata: espressione ed espresso sono inscindibilmente connessi nella loro simulazione di secondo ordine, direbbe J.M. Lotman) diventano «valori positivi d’uso» e naturalizzati come un marchio di fabbrica. Perché «l’industria culturale non può operare sulle strutture, o sugli archetipi, ma sui loro stereotipi d’uso o sulle loro funzioni, come, per es., temi romanzeschi, fabulazioni […] Essendo inalienabile, il lavoro creativo non può mai divenire lavoro produttivo, strumento di autovalorizzazione del capitale, produzione di plusvalore» (Guido Guglielmi, Letteratura come sistema e come funzione, 1967). Tant’è che oggi il capitale finanziario interviene e si propone come attore di attualizzazione solo dopo che il processo creativo della forza intellettiva singolare o cooperativa open source, sganciata dal vecchio rapporto tra valore d’uso e valore di scambio (secondo i termini della legge del lavoro valore), offre in indipendenza e autonomia (fuori la formula: capitale costante e variabile dipendente, il lavoro vivo) il progetto pronto per la realizzazione stessa.
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Fuor di metafora e non, la “rete” è divenuta probabilmente il paradigma emblematico di questi ultimi anni. Le progettualità collocabili entro il piano della scrittura comunitaria mostrano, in certa misura, una convergenza con la “capacità reticolare” che informa, ad esempio, oggi, lo scambio comunicativo (su vari livelli – contenuti, piattaforme, utenza, etc. – ) nell’epoca dell’egemonia della rete, sempre più innervata dalla sperimentazione di prassi cooperative esercitate da soggettività enunciative plurali. Tornando allo specifico delle scritture collettive, si è talvolta assistito a una metamorfosi comunitaria strutturale e mediale di testi (in)compiuti, mi riferisco ad esempio a La ballata del corazza prima racconto, poi opera teatrale, musical e, ancora, fumetto a partire da un racconto open source di Wu Ming 2 liberamente modificabile e scaricabile in rete. Rispetto ad altre discipline (teatro, cinema, musica, arte visuale) sembrerebbe tuttavia che in “letteratura” l’assunto secondo cui “l’arte è produzione collettiva” incontri maggiori resistenze. Cosa ne pensa, qualora confermi suddetta ipotesi?
R. Ieri, e solo per ricordarne una, la metafora egemone e propria in funzione del dire, leggere e agire il mondo, è stata quella dell’orologio. Dietro questa metafora pulsavano le esigenze del modello deterministico e riduzionistico di ogni variabile e relazione alle costanti comunque pensate come permanenti. Che i presupposti fossero di ordine metafisico tradizionale o di altro paradigma (una teleologia immanente e storicistica) non cambia di molto l’orientamento preferito. Con l’orologio siamo in presenza del paradigma delle scienze dure e meccaniche. Tale modello o paradigma che, egemone nelle stanze della società, secondo l’episteme del soggettivismo moderno, dettava leggi di comando inappellabili al mondo naturale e a quello artificiale e umano nelle sue varie componenti. Si dice che E. Kant avesse sentenziato: basta prendere ordini dalla natura, ora i maestri siamo noi e lei ubbidisce ai nostri comandi. Il meccanismo dell’orologio, perfettamente programmato, ordinato nei minimi movimenti, prevedibile e ordinato era allora il più confacente a imbrigliare le contingenze, la casualità, l’imprevedibile e la complessità delle relazioni in divenire instabile e aperto, che comunque non venivano misconosciute ma solamente astratte, o depotenziate di efficacia ed epurate. La metafora dell’orologio era la più adeguata a spiegare il congegno lineare causa-effetto naturalizzato. La metafora – meta-pherein (il portare fuori in immagine le astrazioni concettuali e ipotetiche del pensiero degli uomini per rendere visibile l’invisibile o rappresentare simbolicamente il materiale e concreto delle molte determinazioni) – è un ponte che non ha smesso di funzionare per organizzare teorie, pratiche, estetiche.
Oggi la metafora più confacente è quella della rete, la ragnatela delle relazioni che si moltiplicano e complessificano a vari livelli processuali e divenienti. È una metafora più sintonica per il fatto che il mondo odierno (quello dell’essenziale e ineliminabile interdipendenza degli eventi) ha consapevolezza piena che i determinismi meccanicistici non reggono più di fronte a una realtà caosmica, umana e artificiale che difende il suo destino d’essere non uno e immobile ma un molteplice mescolato e diveniente tra continuità e fratture (il suo essere è il divenire e le forme storiche che si è in grado di conferirgli!). Perché si ha consapevolezza di pensiero e di azione che la costruzione e il con-essere-divenire delle cose, degli uomini e del loro arte-facere è sempre più stretto e ravvicinato intreccio ibrido di conoscenze, scienza, tecnica, volontà di potenza poietica e inventiva. Così che il lontano e il vicino dell’odierna contemporaneità, per essere detto nella relazione di mutua interdipendenza dinamica che li tiene, si è coniato il neologismo “glocal”; e non è un azzardo immotivato poter pensare che accanto alla metafora della rete, attingendo nel mondo della fisica quanto-relativista e in quello degli “attrattori”, si debba affiancare anche quella dell’azione reticolare a lunga distanza dell’”effetto farfalla” (il battito d’ali di una farfalla qui provoca – imprevedibilmente – turbolenze altrove e catastrofiche, biforcanti). Nei sistemi dinamici di alta complessità, infatti, e soggetti a più e diversi “attrattori”, l’intreccio delle relazioni può dare vita alla realtà dei fenomeni delle armonie caotiche, o agli effetti farfalla del tipo dell’attrattore di Lorenz (E. Lorenz aveva individuato delle traiettorie a spirale che, altamente instabili, raggiunto un certo punto critico d’instabilità, nel tempo cambiavano direzione – biforcavano – e si aggrovigliavano senza intersecarsi mai. Il risultato di questo processo si concretizzava nella forma delle ali di una farfalla. Le traiettorie, terminando in posizioni radicalmente diverse, finivano cioè, secondo le determinazioni del modello in opera, con il raffigurare simultaneamente due ordini diversi e coesistenti. Ciò che nell’aggrovigliamento delle traiettorie appariva come un disordine era soltanto un ordine diverso, altro).
Chiudendo questa breve escursione, ma non fuori luogo (crediamo), sulla funzione logica e immaginativa della metafora e del suo passaggio a quella della rete, può risultare comprensibile perché la sua «capacità reticolare» interessi e attraversa pure il mondo dell’arte, delle scritture letterarie e poetiche nel mondo della contemporaneità dell’artista e del poeta come soggetto plurale aperto e cooperativo; la mano cioè che non interagisce più solo in proprio e con il proprio self, o con il gruppo di appartenenza chiuso, ma anche con altre soggettività eterologhe (oggettivanti e desoggettivanti). Anche il pubblico (spettatore, lettore, ascoltatore) è divenuto un soggetto interattivo. Si è divenuti spett-attori: spettatori e attori insieme. E poi, come ha notato B. Spinoza ne la sua “Etica”, non sempre le passioni (come il piacere e la gioia, per esempio) sono un esser-ci in passività.
G. Deleuze e F. Guattari, muovendosi all’interno-esterno di una realtà rete-rizomatica, scrivono che nello specifico dell’arte occorre distinguere la sfera soggettivo-personale delle percezioni e delle affezioni «da quella desoggettivata e impersonale, che si raggruma in percetti e affetti» (Cfr. Mario Perniola, L’estetica contemporanea, 2011). In questo mondo in comune (di tutti e di nessuno in particolare) c’è di mezzo un’eccedenza d’essere e di con-esser-ci che attraversa lo scambio comunicativo tale che lo scambio e l’arte, dentro o fuori la metafora della rete, non può essere rigidamente bloccato e ridotto alla comunicazione informativo-informatica comandata e controllata, censurando o impedendo al collettivo i prelievi culturali come beni comuni.
Per quel che qui si può testimoniare (chi scrive per rispondere alle domande dell’intervista), riferendosi all’esperimento della scrittura poetica collettiva open source del soggetto collettivo anonimo Noi Rebeldía (il sine nomine, per altri i Wu Ming = i senza nome), la produzione letterario-poetica collettiva incontra le resistenze (di cui si è già detto qualcosa in corso) anche perché i vecchi schemi di pensiero e azione, che sono anche comportamenti consolidati e riconosciuti come passaporto comunicativo standardizzato, hanno difficoltà a cedere il posto o a mescolarsi con le nuove procedure e le possibilità di sviluppo, così come è non ancora un filtrato di massa il fatto che il reale e il virtuale non sono più un puro gioco sofisticato di intrattenimento o di altra allucinazione percettiva, bensì un fattuale e concreto modo simbiotico in itinere. Una nuova identità ibrido-meticcia, singolarità sociale plurale e molteplice come potrebbe essere un ornitorinco di nuova generazione. Nessuno dimentica quanto tempo è passato per potere riuscire a credere e con-vincersi che l’esistenza dell’ornitorinco, sintesi sim-biotica di classificazioni (finora escludentesi) come oviparo e mammifero, volatile e acquatico, non fosse più un impossibile. Ma fino agli anni Sessanta, per le classificazioni della cultura e della civiltà logo-centrica dell’Occidente, era così. Ma l’ornitorico esisteva già e viveva presso i luoghi dell’Australia. Ora l’identità dei cyborg della civiltà cyberspaziale contemporanea, o quelle più in generale ibride di nuova generazione e migranti, come l’identità paradossale degli ornitorinco di ieri, sono in itinere e hanno bisogno di tempo per essere accettate e praticate. Ma i cyborg, come corpi misti di tecnica e di umano-animale, sempre più presenti nel nostro contesto di mondo elettronificato, o altri tipi di identità emergenti hanno bisogno di tempi di accoglienza e di assimilazione culturali e politici che non sono né immediati né brevi. Quindi, come dice il detto, dare tempo al tempo. Se le vecchie generazioni di artisti, scrittori e poeti, rispetto alle punte profetiche, o di avanguardia che si voglia dire, hanno maggiore resistenze, minori saranno le resistenze dei soggetti non assoggettati (specie al mercato) di domani. E poi non c’è passo, nuoto o volo senza resistenza e conflitto. La rete è un acceleratore e un propulsore di ibridazioni quantitative e qualitative più di qualsiasi altro medium messo a punto dagli uomini della scienza e della tecnica. La rete, mondo in comune, genera mutue relazioni storico-dinamiche in progress tali che la sim-biosi tra ideatori, linguaggi e fruitori sarà sempre una realtà dis-piegata. Da qualche parte B. Brecht ha detto e scritto che il reale e la realtà hanno più forme e modelli di quanti ne possa immaginare e suggerirne l’arte e la scienza degli uomini stessi.
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Se il processo di reificazione (finanche) del bios pare definitivamente compiuto – e già Leopardi, nel XIX secolo, criticamente intercettava, ai suoi prodromi, la tendenza in divenire di un mondo “statistico” – e, dunque, i flussi rappresentativi sono irrimediabilmente (e immediatamente) flussi produttivi risulta effettivamente possibile praticare uno squarcio tattico che, nel collettivo, garantisca anche produzione di soggettività “altra”? Se la letteratura contribuisce alla costruzione di “immaginario” sembrerebbe che l’invito alla cooperazione dei vostri progetti segni nelle sue premesse una possibilità resistenziale che fa capolino “nell’umana realtà”, come avrebbe a dire Negri ne Sul lavoro collettivo (in Arte e Multitudo).
R. Crediamo sia impensabile e improponibile porre il problema della reificazione come completamente e definitivamente solvibile e risolvibile, finché storia e tempo, tra continuità e fratture, hanno corso. Altresì non è possibile, crediamo, né ipotizzare né certificare, dove è sempre visibile un’eccedenza d’essere e divenire (arte, poesia e ricerche a vario ventaglio testimoniano!), che appaia «definitivamente compiuto» il processo della «reificazione del bios». I processi hanno un’intrinseca temporalizzazione che ne impedisce l’attualizzazione definitiva.
Non esiste formalizzazione e sua traduzione in tecnica applicativa che possa raggiungere lo scopo. La tendenza statistica del mondo moderno borghese capitalistico e liberale, di cui alla giustificata preoccupazione del nostro Leopardi, da un altro punto di vista, quello dell’eccedenza di una totalità-mondo pre-statistica, può solo dire (e non farci dimenticare) che c’è un reale e una realtà naturale e socio-umana sì artificiale, ma anche fuori e mai riducibile agli schemi dei modelli dei linguaggi astratti e formali, costruibili possibili sia per rappresentare o inventare. Basterebbe, solo per rimanere fermi alle più recenti riduzioni delle manipolazioni del DNA della materia, dell’energia, della chimica, delle fornaci nucleari, della biologia molecolare o delle neuroscienze, per convincersi che le mappature del cervello e l’individuazione delle zone cerebrali preposte ai differenti compiti del vivere, agire insieme e con-essere-divenire forme e variazioni di forme mai radiografano e scannerizzano un modo di com-prendere, di desiderare, di amare, di fantasticare, di immaginare, di sognare, ecc.
E ciò, per stare al linguaggio della cultura greca di cui ancora siamo eredi e operai, perché la vita del bios non coincide con quella della semplice nuda vita (come direbbe M. Foucault) animale, zoé. Il bios è quello degli uomini come zoon politikon, logon echon e teoretikos. Un essere dotato di logos (logica e linguaggio) capace sia di poesis (arte/fare/fabbricare) che di praxis (agire in presenza d’altri e con la parola, lexis) servendosi dell’arte e della parola con libertà creativa e interattiva con/dentro la polis, il comune e la comunità degli uomini. Il comune relazionale. L’essere in comune e plurale degli-uni-con-gli-altri che, per struttura relazionale e mescolata interattività, ha/processa relazioni e reazioni sempre instabili, imprevedibili e sempre irriducibili, nonostante le varie tendenze a cosificare o reificare i rapporti tra gli uomini come rapporti tra cose e viceversa. La tendenza a reificare non è mai compiuta neanche nell’oggi dell’IA (l’Intelligenza Artificiale del software dei computer). Il mondo cibernetico e della società postfordista teleinformatizzata ed elettronica, che mima e materializza in flussi algoritmici automatizzati il sapere sociale del general intellect (topoi comuni, o archetipi, o dogmata come li chiamava Gianbattista Vico), non può essere immediatamente produttiva se non quando l’ideazione è diventata marchio, brevetto di fabbrica e sottoposto al copyright.
Come abbiamo visto con Guido Guglielmi (La letteratura come sistema e come funzione), i processi creativi archetipici delle singolarità autovalorizzanti sfuggono alla cattura della valorizzazione del capitale, oggi digitale. E ciò anche se ha raggiunto la capacità di trattare il mondo della praxis (della lexis/parola, del cognitivo, dell’immateriale, dei bisogni, dei desideri, dell’informazione, della comunicazione, ecc.) – come forza produttiva dell’industria dell’immateriale del nuovo millennio in corso. Il plusvalore della poesia (individuale o collettiva che sia), la dimensione della sua polisemia aseica (autoreferenzialità semio-simbolica specifica), quella testuale della sua polisignificanza in versi e del tempo esponenziale che li anima come simultaneità di istanti eterologici – impedisce e frattura l’eventuale flusso della produzione standardizzata. Significanza determinata-indeterminata e tempo esponenziale dell’arte-poesia, anche se la combinatoria algoritmica dei flussi informatici dell’odierna nanotecnologia è governata da velocità sempre più elevate e prossime a quelle della luce, non sono ritmica reificabile neanche in questa fase storica in cui il tempo della vita (bios), grazie alla rivoluzione industriale computerizzata (per dirla con la preveggenza del “frammento delle macchine” dei Grundrisse di K. Marx e con Toni Negri della “moltitudine” come singolarità plurali), è stato interamente sussunto nel tempo del capitale.
Se fra le altre cose c’è un punto su cui contare per non perdere la soggettività e la soggettivazione rinnovate, e nella direzione sia dell’immaginario che del lavoro artistico-poetico cooperativo collettivo-rizomatico, è appunto quello del campo dove taglia e staglia sia la componente del tempo esponenziale, sia la complessa bellezza informazionale della poesia, sia quella della sua significanza (variamente sperimentata nel mondo dell’arte de della poesia) che, in genere, quell’altra della demistificazione e della criticità dell’arte e della poesia stesse. La complessità cioèche, determina-indeterminata al tempo stesso, attraversa e vitalizza la scrittura poetico-letteraria, ovvero i prodotti dell’arte e l’attività dell’artista e del poeta plurale e collettivo, facendone possibilità reale di resistenza e contro-tendenza ribelle.
Il richiamo esplicito che questa quinta domanda pone nominando il testo di Negri Sul lavoro collettivo (Arte e Moltitudine, 2004) – che poi è un insieme di lettere sulla funzione dell’arte scritte a diversi intellettuali (Sul lavoro collettivo è indirizzata a Manfredo Massironi) – è un precipitato sintetico di tutto questo universo in ebollizione e in eccedenza eversiva. L’arte, vi scrive Negri, tra decostruzione non mitradizzante il mercato, recupero dei resti e riconfigurazioni ricostruttive, caro Manfredo, è uno «dei prodotti del lavoro collettivo». Ma la decostruzione non basta. Distrutto il reale, bisogna ritessere. Il lavoro continua e con l’immaginazione che libera, insieme alle propulsioni delle spinte del conatus (sforzo o tendenza di ogni essere a conservare e aumentare il proprio stato di essere e piacere; se riferito alla sola mente si chiama volontà), dell’appetitus (sforzo riferito insieme al corpo e alla mente) e del desiderio/cupiditas (il desiderio dell’appetito unito alla sua consapevolezza) spinoziani, si approssimano soggettività, azioni e sintesi co-operative nuove. Perché l’arte, in questo nostro tempo così mercificato e dell’insorgenza della moltitudine, non finisca di essere produzione collettiva. La produzione è sempre collettiva e azione di conflitto e fuga, così come la potenza immaginativa della sua astrazione si fa nuovo soggetto.
E qui, per dar forza alla proposizione, ci piace ricordare, seppure brevemente, il saggio sul tema dello studioso Ubaldo Fadini (Arte, cyberspazio. Alcune osservazioni, in «Iride», XVIII, n. 46, Dicembre 2006. Un lavoro, questo, richiamato anche nel nostro saggio L’avanguardia del collettivo anonimo “Noi Rebeldía” – edito in «Fermenti», XLII, n. 242/2014).
Il mondo della moltitudine singolare, in quanto soggettività creativa autonoma e indipendente dell’essere potenziale, comune e proprio a ciascuno e a tutti (che è diventato il capitale fisso della produzione e riproduzione capitalistica – direbbe Antonio Negri), allora non è solo una forza viva di resistenza e conflitto antagonista che si innesta sul piano dell’opposizione economico-sociale e politica. La sussunzione capitalistica è totalizzante e va combattuta anche su altri versanti. Il rifiuto e la ribellione dell’intelligenza collettiva, che muove la rete informatica e telematica e qui l’economia e la mercificazione della comunicazione, deve coinvolgere anche la dimensione dell’arte, in genere. Antonio Negri, scrive Ubaldo Fadini, sviluppò un ragionamento sul carattere intimamente contestativo dell’arte; e ciò sulla base della presa d’atto della realizzazione piena della marxiana sussunzione reale, quale domino di tutte le categorie della vita funzionali alla ri-produzione capitalistica della società.
Così (Ubaldo Fadini): l’arte «“non può accettare il comando capitalistico […] quando il dominio del capitale non era ancora sviluppato sull’intera società, vi potevano essere spazi nei quali l’autovalorizzazione poetica si ritagliava una nicchia di libertà. […]. Ma quando la sussunzione reale e totale del capitale sulla società è cosa compiuta, allora l’autovalorizzazione artistica si ribella. La sua condizione metafisica è quella della ribellione e del rifiuto”. […]. L’arte, soprattutto nel momento in cui il lavoro si fa sempre più “immateriale”, è forse il valore costruito per eccellenza, […] lavoro artistico come lavoro liberato […] lavoro non assoggettato/asservito/alienato/sfruttato, espressione dunque di desiderio, di libertà, che innerva il lavoro accumulato, astratto, nel senso di stimolarlo ad eccedere, “a sviluppare nuovi significati, sovrappiù dell’essere”. […]. L’arte è […] meccanismo produttivo democratico […] che produce linguaggio, parole, colori, suoni che si stringono in comunità, in nuove comunità. Per sfuggire all’illusione estetica […] bisogna costruire liberazione nella sua figura collettiva. […] Nell’artista il collettivo libera un’eccedenza d’essere e la singolarizza […] è un richiamo […] al tema deleuziano dell’“aver fiducia nel mondo”, cioè all’impegno necessario implicito nel rispondere criticamente allo “smarrimento” del mondo stesso, all’esserne stati “spossessati”». Così Ubaldo Fadini (Arte, cyberspazio. Alcune osservazioni, in «Iride», XVIII, n. 46, dicembre 2006).
Ma, in stralcio, e per dare risposta alla quinta domanda, ci piace riportare qualche passo (nostro) da Il plusvalore della poesia, il significante non mercificabile né digitalizzabile vs i clominimedia (Cfr. Antonino Contiliano, in retididedalus.it, retroguardia2.wordpress.com, lapoesiaelospirito.wordpress.com, 2013). E ciò per sostenere ancora che il discorso della significanza e del tempo esponenziale dell’arte-poesia, egualmente presente in una scrittura collettiva e anonima, sebbene in un tempo in cui l’intelligenza collettiva e il general intellect sono diventati il motore produttivo e riproduttivo del neocapitalismo della creatività e della comunicazione digitalizzate, non è affatto scomparso sotto i colpi del reificabile, e che le tensioni di controtendenza non sono affatto depotenziate. Soprattutto perché è la stessa dimensione contraddittoria del tempo capitalizzato che spinge alla ribellione lì dove il “tempo superfluo” è in funzione del “tempo minimo” necessario alla valorizzazione capitalistica anziché al potenziamento delle facoltà generali e creative di tutti; e ciò nonostante il lavoro postfordista, tendenzialmente, avesse liberato dal lavoro salariato senza tuttavia, però, desistere dal mercificare la creazione e la comunicazione.
L’area semantica del linguaggio poetico non è infatti quella degli algoritmi monologici dell’immateriale del capitalismo elettronico, e il segno non è solo immagine di se stesso, e la sua significatività non è, biunivocamente, subordinata alla piazza del mercato trascendentale (spoliticizzazione) che naturalizza il profitto di classe; ma è quella della plurisignificanza che tiene conto delle coalescenze di confine, degli sfumati, delle distanze e delle fughe diversamente inafferrabili dal/nel linguaggio di primo o secondo ordine. Nell’agorà dell’occupazione capitalistica dell’immaginario sociale, le soggettivazioni della poesia delle singolarità sociali e del “noi” plurale, che nelle loro costruzioni/interpretazioni fanno circolare pure pensieri e saperi non concettualizzabili, non perdono la libertà conflittuale degli attriti e delle resistenze. Il “comune” della dis-misura plurilogica e del senso degli “affectus”, che la logica del valore di scambio, nonostante la sua messa in crisi, cerca di aggirare facendosi biopotere, qui reagisce e agisce in contro-tendenza, in quanto il linguaggio della poesia è una forza-lavoro viva che il produttore (non prosumer) singolo attualizza nella cooperazione inter-extratestualità temporalizzata e nel comune del poetic general intellect politico e sociale che si relaziona e nel contesto genera sviluppi rizomatici, orizzontali. Il poetic general intellect che, al linguaggio, come anche ai suoi strumenti retorici quali, per esempio, la similitudine, la metafora e l’allegoria, non ha sottratto il loro essere natura di segno artificiale quanto materiale; e non si sovrappone alla realtà fino a vaporizzarla così come, invece, strumentalizza il capitalismo dell’immateriale e delle sue equivalenze monetarie/finanziarie previa traduzione-riduzione ai suoi algoritmi informatizzati e bit di luce.
Il tempo della poesia è invece il controfattuale conflittuale, e l’esponenzialità del suo divenire non trova alcuna chiusura algoritmica, sì che il suo futuro è un contro-futuro o un conseguente che dall’antecedente non scorpora l’impegno e la sfida politica come giudizio e azione conflittuale alternativi. Del resto la codificazione estetico-critica della poesia, se la poesia, senza tagliare i legami con le relazioni etico-politiche e sociali e il linguaggio letterale materiale che la informa, simula il mondo e la vita non può rapportarvisi priva di sospetti e utopia progettante. La codificazione non può rimanere un modello solo mentale consensuale e consolatorio, senza opposizione e proposizione. Una sfida e un conflitto. Un conflitto, quello della poesia e del suo modus temporale, che nel suo consumo significante non cerca e produce i profitti del valore di scambio con il significato ridotto a fantasmagoria della merce, ma intreccia i diversi fili coinvolti nel rapporto tra le cose, i linguaggi e i soggetti per invertire la direzione sequenziale-algoritmica univoca della comunicazione (cui mira invece il capitalismo della parola e dei linguaggi) e per attivare il polemos dell’espressione. E dove c’è un’espressione non possono mancare i segni e l’uso simbolico che se ne fa. Gli elementi dell’insieme poetico sono un utensile linguistico sociale ribelle. Già di per sé sono un insieme di inversione e destabilizzazione rispetto alla combinazione usuale della catena lineare che guida la comunicazione non artistica (standard). E l’inversione non tocca solo la grammatica e la sintassi. Riguarda anche il tempo e le sue temporalizzazioni, le con-tingenze che popolano il campo di istanti non linearizzati o di intervalli che durano e non durano. Un intervallo processuale di frammenti che, come le frasi-immagini o le strofe-immagini o i versi-immagini, si richiama per mutue contrapposizioni di equivalenze ritmiche e conflittuali su biforcazioni che vivono dove c’è il “tra” della soglia, il passaggio temperato che distanzia quanto lega ciò che, mescolato, vi si processa e incrocia.
È il tempo come rete di attimi e di ritmi in movimento (non necessariamente causalmente concatenati o lineari) che, simultaneamente e parallelamente, lavora con la verticalità, l’orizzontalità, la circolarità, la convergenza, la divergenza, i vortici orari e antiorario del mondo e delle esistenze, i passaggi, le spire del fare poetico. È il tempus del ritmo cardiaco (circolare); quello biologico e dell’età (irreversibile); quello psicologico (vario e incostante); quello culturale, sociale e storico; un intreccio piuttosto complesso di intersecazioni eterogenee. Una mescolanza di tempi che popolano, egualmente e in maniera consona al ritmo scelto, qualunque testo. Un altro “giardino dei sentieri che si biforcano” (Jorge Luis Borges) o le biforcazioni narrative del viaggiatore di/in una “notte d’inverno” (Italo Calvino). La complessità che si ribella e sabota la volontà di semplificare la contraddizione in una misura astratta e uguale per tutti; è come se si volesse lisciare l’asperità semantica della verità dell’ossimoro po(i)etico – l’acuta follia – che la misura invece vorrebbe imprigionarne. La comunicazione simbolica del linguaggio poetico, per la sua interna struttura non lineare e multilivello, quanto espressione di un general intellect poetico comune in divenire, e da questo processo inseparabile, rimane però un conflitto e un sabotaggio. Si pone, si può dire, come un dispendio sovversivo. È la potenza di un vuoto “quantistico” che si sottrae alla valorizzazione del capitale e delle sue finte metamorfosi.
Le metamorfosi del capitale, infatti, sono solo delle tras-formazioni. La sua forma permane. Ieri come oggi. Le vesti della modernizzazione elettronico-telematica non hanno fatto cambiare freccia alla logica della valorizzazione capitalistica e dello sfruttamento del comune: l’individualismo e il profitto (privati) rimangono. Di concerto con la pubblicità mainstream complice e l’intelligenza manageriale, quel tipo di logica di esproprio-appropriazione e profitto/rendita privata si fa sentire ideologico diffuso e pubblico comportamento in esercizio. Un sguardo pur distratto alle mostre d’arte organizzate dal mercato dei mercanti d’arte sarebbe di per sé sufficiente a non smentire il proposito.
Il plusvalore del dispendio poetico, però, nel suo intreccio semantico-significante plurale e di segni mescolati/ibridati, sconvolge i significati del senso comune omologati (specie quelli dell’ordine dei mercati finanziari che dominano la scena). Il linguaggio poetico rimane una forza d’uso non automatizzata; e la pratica comportamentale che richiede è quella della deautomatizzazione del dire e dell’agire. E poi il significante e il significato, essendo la produzione poetica una pratica significante in processo, non coincidono. Sono una relazione e una ristrutturazione continua del senso che la temporalità storica avanza.
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Parliamo di copyleft. Come e quando è avvenuta la scelta di allontanarsi dal copyright? O più in generale, qual è l’approccio a questo mondo, quali i limiti, se ne possiede, e quali le poste in gioco, politiche e simboliche?
R. Credo che la lotta per il copyleft – revisione della gestione giuridica dei diritti d’autore oltre le garanzie del vecchio diritto di proprietà esclusiva (copyright) dell’autore sulla circolazione dei propri prodotti artistico-letterari, o culturali in generale – si possa fare risalire a quel clima di contestazione incandescente e rivoluzionario che ha caratterizzato la fine del secolo scorso. Il tempo in cui cioè i prodotti della cultura, dell’intelligenza e della creatività sono stati visti e considerati beni comuni (“commons”) ed essenzialmente sociali, nonostante un singolo individuo potesse anche vantarne l’autorialità individuale. Era anche il tempo in cui la riconversione economico-industriale del mondo capitalistico, ferme rimanendo le leggi della produzione capitalistica, metteva a lavoro e valore la cultura, l’arte, la creatività singola e sociale-cooperativa orizzontale e aperta (open source), riservandosi il dominio e il controllo della finanziarizzazione della progettualità singolare-sociale. Per cui rimettere mano ad una riforma giuridica del diritto d’autore, in un mercato capitalistico, finora difensore estremo del diritto di proprietà esclusivo, era un compito cui non ci si poteva sottrarre o ritardare più di tanto. L’autore (la singolarità) in fondo non perde il diritto e la paternità autoriale, dà il permesso (left) entro la salvaguardia di alcuni limiti che poi vengono indicati dalle licenze “creative commons”, o dal GPL (General Public License). Tuttavia non è irrilevante, in questa sede, sebbene per cenno, dire che il termine left sta ad indicare anche una svolta politica di “sinistra” e di erosione del diritto di proprietà soggettivo vecchia maniera, ovvero un diritto di proprietà che si coniuga anche con il possesso diretto ed esclusivo di beni, mentre il modo di produzione teleinformatico e della rete, mediante l’interattività e la clonazione, erode l’aspetto del possesso unilaterale delle idee e dei prodotti artistici o di consumo che siano, e che nascono in rete collaborativamente e/o co-operativamente. In fondo è del tutto evidente che è il consumo stesso, come è avvenuto per lo stesso sapere sociale (knowledge, general intellect), ad essere stato impiegato come forza produttiva nel mondo dell’industria dell’immateriale.
In fondo, ancora, il mondo capitalistico non esita affatto a cambiare i vecchi assetti, se lo scopo è quello della conservazione e riproduzione (sotto altre forme) del proprio modello di produzione e riproduzione. E ciò nonostante, poi, come hanno giustamente fatto notare Alberto De Nicola e Gigi Roggero, «la proprietà intellettuale rischia di diventare un blocco per l’innovazione e la produzione dei saperi, risorsa centrale del capitalismo contemporaneo. Se vuole sopravvivere, allora, è necessaria una “produzione orizzontale basata sui beni comuni”, mettendo a valore proprio quelle caratteristiche esaltate nei movimenti mediattivisti: condivisione, centralità delle strategie non proprietarie, eccedenza della cooperazione rispetto al mercato» (Cfr. a cura di Marco Baravalle, L’arte della sovversione, 2009). I limiti di questo approccio sono di diversa natura, e non ultimo è certamente il conflitto tra conservazione, reazione, innovazioni e rivoluzione. La lotta per il controllo non è solo sul piano del potere politico. La partita si gioca anche su quello simbolico della formazione delle identità individuali e sociali tramite le modifiche dell’immaginario e il disciplinamento dei comportamenti; non è un caso che le istituzioni pubbliche e private codificano, decodificano e controllano l’insieme delle relazioni che innervano il mondo della rete e dell’arte in rete.
Il copyleft è anche e soprattutto, allora, una battaglia di sinistra che si gioca sul piano simbolico e sull’immaginario sociale che gravita attorno ai beni comuni, dalla cui concretizzazione (occorre non dimenticare) non può più essere emendata la componente dell’azione cooperativa delle identità artistiche e poetiche ibride condivisa e al tempo critiche e sovversive, mentre è lo stesso sviluppo del mondo web in comune che ne è stato concausa e stimolazione attiva. Nel mondo della rete, infatti, si genera un “ambiente” vitale tale in cui «situazioni e identità si generano, interagiscono, si modificano; i prolungamenti tecnologici della nostra natura assumono aspetti di presenza e di performance remote […] una creazione condivisa […] fatta di una specie nuova di “materia” […] di cui anche l’identità dell’autore in rete si contamina e consta, in cui si sfrangia e confonde» (Cfr. Caterina Davinio, Tecno-poesia e realtà virtuali, 2002). Occorre altresì non dimenticare neppure l’azione vigile che il potere ora esercita come concentrazione del dominio politico e asservimento ideologico e culturale in movimento.
Un potere che, non meno di quello economico e dei conflitti di classe, è finalizzato soprattutto a orientare, formare, disciplinare e formattare i comportamenti, i consumi individuali e sociali. L’ordine costituito e costituente non si priva di nessun stratagemma. Non bisogna infatti sottovalutare come giornalmente il sistema-mondo, servendosi degli “esperti”, investe in campagne di pubblicità e propaganda, che, intrise di richiami e suasioni estetico-culturali, transitano simbolicamente i loro controlli facendo incorporare soggettivamente, alle persone, certe differenze gerarchiche di classe come organizzazioni di squadre lavorative oggettive nell’economia della creatività artistica piegata al capitalismo. Un’economia simbolica della differenziazione – direbbe Pierre Bourdieu – che permette e consente «di riconoscere tutte quelle differenze attribuendo ad esse un valore […]. Il capitale simbolico è un capitale a base cognitiva, fondato sulla conoscenza e sul riconoscimento» però del modello capitalistico che si ristruttura senza nulla perdere della sua essenza antidemocratica protetta (Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, 1994). Ma anche su questo fronte, fortunatamente, c’è un’azione di antagonismo simbolico collettivo. Le pubbliche manifestazioni dell’odierno dissenso politico e sociale – si può dire –, infatti, riciclano sempre più l’agire degli artisti di strada, dell’ironia e della satira della parola e dell’arte.