La cronaca nera in questi giorni ha “consegnato” l’ennesimo infanticidio ai danni di un soggetto debole: Loris, un bambino di 8 anni scomparso e in poche ore ritrovato morto in una scarpata nella sua piccola città, Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, uno di quei paesini in cui tutti si conoscono, si danno la mano e in cui il vicino è “l’orco”. Ma qui non si vuole sbattere il mostro – chiunque esso sia – in prima pagina. Qui si vuole evidenziare un aspetto che in molti fatti di cronaca degli ultimi anni sta venendo fuori: nel caso del piccolo Loris e in quello di Yara Gambirasio, sia gli inquirenti sia, di conseguenza, i media, hanno puntato il dito sul primo testimone: nel primo caso il cacciatore che ha trovato il piccolo (per cui sono in corso delle indagini), nel secondo, il tunisino che si trovava nel luogo della scomparsa della tredicenne la cui frase intercettata non è stata tradotta correttamente. Il caso Sara Scazzi è stato, da questo punto di vista, un precedente pericoloso: lo zio Misseri trovò e consegnò agli investigatori il cellulare della ragazzina. Ma Misseri lo fece con l’intento di “coprire” la figlia e la moglie, commettendo un grosso errore. Gli inquirenti devono fare il loro lavoro, ma la fuga di notizie non fa che danneggiare persone che possibilmente sono del tutto innocenti. Se il cacciatore che ha trovato Loris non ha fatto nulla, potrà chiedere un risarcimento danni a chi ha leso la sua immagine. Spesso il “puntare il dito” contro il primo testimone, colui che ci mette la faccia ed il nome, serve solo a scoraggiare chi ha visto qualcosa e non vuole parlare per paura. Basti ricordare il fango che si è abbattuto sul teste che vide il marito di Roberta Ragusa litigare con la donna prima della scomparsa. Un corretto bilanciamento tra segreto istruttorio, buon senso e rispetto della dignità altrui potrebbe essere la giusta ricetta.
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