L’Intifada delle parole nelle “Poesie da Gaza”

redazione

L’Intifada delle parole nelle “Poesie da Gaza”

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lunedì 01 Dicembre 2025 - 18:48

“Se devo morire, / che porti speranza, / che sia una storia”

Rafaat Alareer

Pubblicato “Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza”. Le voci dei poeti, tra cui due uccisi nel 2023, rispondono all’orrore con la forza della scrittura. In un momento in cui le notizie da Gaza giungono frammentate e travolte dall’immediatezza dei bollettini di guerra tv (dai telespettatori: le morti e le stragi consumate a cena), arriva nelle librerie italiane un’opera che cerca di restituire un volto, un nome e un sentimento a un popolo sotto assedio. È “Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza” (Fazi Editore, 2025, pp. 141, € 10,20), una raccolta che fa della letteratura un atto di resistenza e solidarietà. Per ogni copia venduta, l’editore destinerà 5 euro a EMERGENCY per le sue attività sanitarie nella Striscia di Gaza.

Il volume, curato da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, raccoglie trentadue poesie di dieci autori palestinesi, scritti dopo il 7 ottobre 2023. Tra di loro, Heba Abu Nada e Refaat Alareer, uccisi nei bombardamenti israeliani nell’autunno dello scorso anno. Le loro voci sono introdotte da contributi di peso: la prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé e gli interventi della scrittrice Susan Abulhawa e del giornalista premio Pulitzer Chris Hedges.

Si Ripete il Grido della Storia. Il libro non ignora l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, che causò la morte di circa 1200 civili israeliani e il sequestro di ostaggi. Tuttavia, pone l’accento sulla sproporzione della successiva risposta israeliana, definita senza giri di parole “genocida”. È in questo contesto di dolore che le poesie emergono, non come semplici testi, ma come documenti umani. E per comprenderne la risonanza profonda, la recensione originale ci invita ad ascoltare un’eco del passato: la poesia “Fuga della morte” del poeta ebreo Paul Celan, sopravvissuto all’Olocausto. I suoi versi, un lamento ipnotico e agghiacciante sulla macchina di sterminio nazista, risuonano con una tragica attualità. Cambiando i soggetti, la “fuga” sembra ripetersi:

Nero latte dell’alba lo beviamo a sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo a notte / beviamo e beviamo / scaviamo una tomba nell’aria là non si sta stretti.

Quel “beviamo e beviamo” è l’immagine di un destino amaro ingoiato a ogni ora. Quel “maestro venuto da Germania” con l’occhio azzurro che “colpisce con piombo” i corpi, evoca, per il lettore contemporaneo, un parallelo che fa rabbrividire. È la prova che la logica dello sterminio, in qualsiasi epoca e contro qualsiasi popolo, segue patterns tragici e riconoscibili.

Ma c’è la “resistenza” dell’identità (Darwish e Abulhawa) che il libro, accanto a questa eco tragica, propone come due pilastri della resistenza palestinese: la poesia “Carta d’identità” di Mahmud Darwish e il “Discorso alla Oxford Union” di Susan Abulhawa.

Le parole di Darwish sono un manifesto di fierezza e appartenenza. Un inno alla terra che non si vuole abbandonare:

Prendi nota / sono arabo / … / sto fermo dove ogni altra cosa / trema di rabbia / ho messo radici qui / prima ancora degli ulivi e dei cedri.

È la voce di un popolo che, nonostante tutto, non mendica, ma rivendica. E che, pur dichiarando di non odiare, lancia un monito chiarissimo: “attento alla mia fame, / attento alla mia rabbia”.

Il discorso di Susan Abulhawa, incluso nel volume, fornisce invece la cornice storico-politica a questa rabbia. Con lucidità chirurgica, smonta la narrazione dominante, ricordando come il progetto sionista abbia da sempre considerato i palestinesi un ostacolo da rimuovere. Cita sia Weizmann, che nel 1921 li paragonava alle «rocce della Giudea», sia Ben-Gurion che affermò: «Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto». Fino alle dichiarazioni agghiaccianti di esponenti israeliani contemporanei che, come riporta Abulhawa, hanno invocato pubblicamente di «ucciderli tutti».

La sua argomentazione più potente è un esperimento mentale: chiede di immaginare se i ruoli fossero invertiti. Se fossero i palestinesi a rubare le case, a uccidere centinaia di migliaia di ebrei, a bombardare ospedali e sinagoghe. “Non ci sarebbe alcuna discussione – scrive – sul fatto che si tratti di terrorismo o genocidio. Eppure, noi palestinesi siamo qui costretti a discutere la nostra stessa esistenza con chi vorrebbe vederci morire ‘buoni e zitti’”.

Un Coro che Dice “No” alla Cancellazione: “Il loro grido è la mia voce” non è solo un titolo, è una presa di posizione. Le trentadue voci della raccolta, in coro, rispondono all’idea di cancellazione con un rifiuto fermo e dignitoso. “Non ci cancellerete”, sembrano ripetere. “Non siamo le rocce che Weizmann pensava di poter rimuovere. Siamo la terra stessa.”

In conclusione: questo libro, quindi, non è solo una raccolta di versi. È un ponte gettato verso una comprensione più profonda del conflitto, oltre le semplificazioni dei telegiornali. È un invito a leggere non solo con gli occhi, ma con l’anima della mente e dei corpi, per riconoscere in quel grido una dignità umana che la guerra cerca di spegnere. Per scoprire che, nonostante tutto, la bellezza e la vita continuano a fiorire, anche tra le macerie, e chiedono solo di essere ascoltate.

Antonino Contiliano

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