La resa dell’acciaio

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

La resa dell’acciaio

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lunedì 03 Novembre 2025 - 06:29

Ci hanno detto che era colpa della guerra. Del virus. Del clima. Che l’industria europea stava soffrendo, sì, ma per cause esterne, imprevedibili, inevitabili. E invece no. La verità è che l’Europa, in preda a un raptus di autolesionismo, sta smantellando sé stessa. Con metodo e disciplina, con una lucidità che inquieta. La Germania, locomotiva del continente, ha spento i motori. L’Italia arranca. La Francia, pur nel mezzo di una crisi politica profonda, regge l’urto grazie alla sua rete nucleare, che nel 2025 copre oltre il 67% del fabbisogno elettrico. Non è la politica a tenerla in piedi, bensì una disponibilità energetica costante, frutto di scelte industriali lungimiranti.

Nel frattempo, mentre le fabbriche chiudono, i capitali migrano verso lidi più docili, dove l’energia costa meno e le regole sono più morbide: India, Cina, USA. È la finanziarizzazione dell’economia che avanza, travestita da transizione verde, da competitività, da modernizzazione. Ma sotto il vestito resta una domanda che scotta: chi produrrà, domani, ciò che oggi stiamo dismettendo?

Uno spettro si aggira per l’Europa, e non è quello evocato da Marx. È lo spettro della deindustrializzazione: una lenta ma inesorabile erosione del tessuto produttivo continentale, mascherata da sostenibilità e innovazione. Non si tratta di una crisi ciclica, né di una sbandata temporanea: è una traiettoria ben delineata. L’ISPI, già a inizio anno, l’aveva messa a fuoco nel suo rapporto L’ora della verità: l’Europa rischia di scivolare in una spirale di smantellamento industriale, per effetto di una convergenza di fattori strutturali — energetici, geopolitici, normativi e finanziari.

Il caso tedesco è emblematico. Dal 2020 a oggi, la produzione industriale ha perso circa il 9%. Il settore automotive, storicamente trainante, è in piena crisi: oltre 90.000 posti di lavoro sono a rischio entro il 2030, con 18.000 già persi nel solo 2025. La produzione di auto è scesa da 5,6 milioni nel 2014 a meno di 4,1 milioni nel 2024, segnando un calo del 27,4%. L’effetto domino si propaga inesorabilmente, estendendosi a Polonia, Repubblica Ceca, Italia — tradizionali fornitori di componenti — che subiscono contraccolpi pesantissimi.

La crisi non è solo economica, ma anche geopolitica e sociale. La chiusura degli impianti nucleari tedeschi nel 2023, il sabotaggio del Nord Stream, la sostituzione del gas russo con GNL americano: tutto ha contribuito a rendere l’energia europea tra le più care al mondo.

Secondo il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo, nel 2025 le imprese italiane affrontano un rincaro del 19,2% dei costi energetici, con aumenti del 210,5% per il gas e del 186,8% per l’elettricità rispetto al 2020. Una enormità impensabile appena qualche anno fa.

Per questo, seppure in ritardo, nel febbraio 2025 la Commissione Europea ha lanciato il Clean Industrial Deal, un piano da 100 miliardi di euro per rilanciare la competitività e accelerare la decarbonizzazione. Tuttavia, i numeri restano impietosi: -3,2% di produzione industriale nel 2024, -1,6% nel 2025. L’emorragia di investimenti continua a spostarsi implacabilmente verso USA, Cina e India. Il piano è certamente ambizioso, ma rischia di arrivare tardi e con strumenti troppo deboli.

E mentre l’Europa smantella, altrove si costruisce. L’automotive cinese, ad esempio, sta spopolando in Europa. Nel 2025, i marchi orientali hanno conquistato oltre il 5,5% del mercato europeo, con una crescita del 79% rispetto all’anno precedente. BYD, MG (di proprietà SAIC), Great Wall Motors e Geely (che controlla anche Volvo e Lynk & Co) sono i protagonisti di questa scalata. BYD ha addirittura superato Tesla in alcuni mercati chiave, mentre MG è tornata a brillare con modelli elettrici accessibili, e Lynk & Co ha introdotto formule di abbonamento che stanno rivoluzionando il concetto stesso di possesso.

A ciò si aggiunge un importante aspetto di posizionamento: le auto elettriche cinesi costano in media tra il 20% e il 35% in meno rispetto ai modelli europei equivalenti. Differenza dovuta principalmente a costi di produzione più bassi, sussidi statali e strategie di penetrazione aggressiva nel mercato europeo.

Ma non è solo una questione di prezzo. È una questione di strategia, di visione, di capacità di occupare lo spazio lasciato libero da un’Europa che si ritira. E mentre qui si chiudono stabilimenti, altrove si aprono concessionarie. Il paradosso è che, nel cuore della transizione ecologica, chi produce auto elettriche non è chi ha scritto il Green Deal — l’Europa — ma chi ha saputo interpretarlo meglio: la Cina.

Questa dinamica ha acceso il dibattito sulla concorrenza sleale. Nel 2025, l’Unione Europea ha infatti avviato un’indagine formale per valutare l’impatto dei sussidi cinesi e il loro effetto distorsivo sul mercato continentale. Ma intanto, le concessionarie si riempiono, i listini si abbassano, e il sorpasso si consuma in silenzio. Mentre l’Europa industriale resta a guardare.

Da un settore che arranca, esponendo tutte le sue fragilità, a uno che invece corre spedito: la finanza. Quest’ultima avanza inarrestabile, come un rullo compressore, macinando profitti e trasformando il panorama economico. I capitali industriali si dissolvono in hedge fund, buyback, asset immateriali. È tanto più semplice, infatti, spostare capitali da un fondo a un altro piuttosto che affrontare i rischi d’impresa e di gestione di un’industria. E così, la società del profitto, abituata a fare prima i conti in tasca a sé stessa, se proprio deve rischiare, è nella finanza che correrà il rischio.

Non a caso, c’è chi fa notare che la nomina di Friedrich Merz, ex BlackRock, alla Cancelleria tedesca, è il simbolo di questa svolta: dal capitalismo produttivo al capitalismo finanziario. Una fabbrica nella Ruhr non è più una fonte di forza nazionale, ma un asset sotto-performante. Certo, il risultato è una Germania più snella, ma anche più fragile e insicura.

Il problema, però, non è solo economico, ma umano. Se l’industria si ritira, chi assorbirà la forza lavoro? Quale modello sostituirà la manifattura? In quali settori potranno essere assorbiti i lavoratori che, giorno dopo giorno, vengono dismessi dal settore industriale? Il paradosso è che l’Europa si è imposta regole severe, mentre il resto del mondo gioca con parametri diversi. La sfida sarà dunque costruire un’economia capace di garantire occupazione, dignità e resilienza, senza sacrificare la sovranità produttiva.

Proprio mentre l’Europa si interroga sul destino della sua manifattura, a Toronto — in questi giorni — si è riunito il G7 per discutere di energia, resilienza industriale e sovranità tecnologica. Il vertice ha messo al centro la sicurezza degli approvvigionamenti, la transizione verso fonti pulite come l’idrogeno e il nucleare di nuova generazione, e la creazione di un’alleanza strategica sui minerali critici — gli stessi che alimentano le batterie delle auto elettriche e le turbine eoliche.

Temi che risuonano con forza nel cuore di un continente che, mentre scrive il Green Deal, sembra dimenticare come si produce ciò che lo rende possibile. Il G7 ha parlato di futuro, ma l’Europa deve decidere se vuole ancora farne parte come protagonista o solo come mercato. Perché la resa dell’acciaio — così come della manifattura, del tessile, della meccanica — non è solo una resa industriale: è una resa storica, culturale, politica. E se non si cambia rotta, sarà anche una resa su tutta la linea.

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