Prima di tutto va chiarito un punto: essere filorussi non significa essere filoputiniani. Il primo è un amore culturale: per Dostoevskij, per la lingua che parla all’anima, per la musica che vibra di emotività, malinconia e identità. Il secondo è un abbraccio politico, spesso inconsapevole, a un regime fondato su propaganda, repressione e aggressione. In Italia, ormai, questa distinzione si è dissolta. Il frullatore mediatico ha mescolato Tolstoj con le dirette Telegram di Donbass Italia, Tchaikovsky con le marce anti-NATO, Lenin con Mussolini. Il risultato è una marmellata ideologica che invade salotti, piazze e social, contaminando il dibattito con posture tossiche e polarizzate. Così il filo-putinismo si è fuso con la fascinazione culturale per la Russia, diventando tutt’uno, una moda trasversale, più emotiva che politica. E non è certo la prima volta che accade nel nostro paese.
Fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, alcuni politici italiani hanno mantenuto una sorprendente coerenza con la linea del Cremlino. Ma il pantheon degli “amici di Putin” era già ben popolato prima della guerra: Silvio Berlusconi lo definiva “un dono di Dio” e ne rivendicava l’amicizia personale; Matteo Salvini sfoggiava la celebre maglietta con il volto di Putin sulla Piazza Rossa e firmava accordi tra Lega e Russia Unita; Giuseppe Conte, da premier, parlava di “dialogo strategico” con Mosca e da leader M5S ha mantenuto posizioni ambigue su armi e sanzioni; Manlio Di Stefano, ex sottosegretario, in quota M5S, accusava apertamente l’Occidente di aver provocato il conflitto; Antonio Ingroia, leader di Azione Civile, e Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova, prendevano parte a manifestazioni contro la NATO e le sanzioni alla Russia, rivendicando la difesa della sovranità nazionale. Un fronte variegato, ma unito da una fascinazione che resiste alle evidenze: Vladimir Putin.
Intendiamoci bene. La guerra del 2022 non è scoppiata nel vuoto: la postura sempre più assertiva dell’Ucraina, sostenuta dalla NATO, ha contribuito a una tensione già particolarmente alta nel Donbass. Ma nessuna provocazione geopolitica può giustificare l’invasione di uno Stato sovrano né la negazione del suo diritto all’esistenza. Un principio che ogni analisi seria deve ribadire con fermezza.
Nel frattempo, alcune testate italiane — Il Fatto Quotidiano in primis — hanno dato spazio a narrazioni che talvolta confondono il legittimo dissenso verso la condotta di NATO e Occidente con una certa indulgenza verso le posizioni di Mosca. Tra i nomi più ricorrenti nel dibattito pubblico: Alessandro Orsini, docente e volto televisivo, noto per le sue tesi giustificazioniste; Marco Travaglio, direttore del Fatto, critico verso l’invio di armi e la narrazione bellica dominante, più che apertamente filorusso; Alessandro Di Battista, ex M5S, oggi opinionista, che ha rilanciato posizioni anti-NATO e contrarie alle sanzioni, in nome di un pacifismo radicale; Diego Fusaro, filosofo rosso-bruno, teorico della “resistenza geopolitica” all’imperialismo americano e dell’uscita dell’Italia dalla NATO.
Il tono di alcuni di questi maître à penser – va detto senza ambiguità – oscilla tra l’ironia cesellata e una brillantezza talvolta compiaciuta, passando per il puro gusto della provocazione intellettuale. Ma su un punto restano granitici: l’argomento Nato/Occidente non ammette contraddittorio. E mentre nei salotti si gioca un difficile equilibrismo retorico, fra detto e non detto, la vera guerra narrativa – quella senza filtri – si consuma online: lì le falangi digitali del putinismo si ingrossano di ora in ora, rilanciando contenuti, colpendo le voci critiche, saturando gli spazi con narrazioni univoche. Nessun confronto. Solo propaganda di grana grossa, ma efficace, capace di fare presa e generare proseliti.
Non solo. Il putinismo italiano non si nutre solo di informazioni tossiche online. Esiste una rete capillare sul campo — fatta di associazioni culturali, eventi pubblici e canali digitali — che agisce come cassa di risonanza della propaganda. Secondo il dossier “La peste putiniana” di Europa Radicale, dall’invasione dell’Ucraina sono stati organizzati in Italia oltre 130 eventi filorussi, spesso con autorità legate al Cremlino e in violazione del Regolamento UE 2022/350, che vieta la diffusione di contenuti di Russia Today e Sputnik.
Queste iniziative si presentano come incontri culturali o dibattiti geopolitici, ma veicolano narrazioni che giustificano l’invasione e attaccano l’Occidente. La loro distribuzione non è uniforme: la maggior parte si concentra nel Nord Italia, dove la densità di eventi filorussi risulta significativamente più alta.
A questa rete si affianca una dimensione digitale sempre più strutturata: canali Instagram come “Donbass Italia”, curato da Vincenzo Lorusso, spesso indicato come snodo attivo nella diffusione di contenuti filo-russi. Parallelamente, numerosi profili Telegram gestiti da italiani residenti nel Donbass rilanciano quotidianamente materiali propagandistici, contribuendo alla costruzione di comunità che si autodefiniscono “resistenti” all’informazione mainstream.
Una cosa è comunque certa. L’attrazione italiana per la cosiddetta ‘Russian way of life’ non nasce dal nulla: si innesta su un humus culturale segnato da una lunga tradizione di scetticismo, quando non di puro risentimento, nei confronti dell’Occidente. È lì che questa narrazione trova terreno fertile.
La prima radice è l’antiamericanismo storico: fin dagli anni della Prima Repubblica, a destra come a sinistra, gli Stati Uniti sono stati percepiti come emblema di materialismo opulento, ateismo pratico e individualismo sfrenato — incompatibili tanto con il catto-comunismo del PCI quanto con l’humus postfascista che alimentava il MSI. A questo si è aggiunta la critica all’imperialismo americano, accusato di soffocare identità e sovranità, e la condanna comunista del modello culturale statunitense, protrattasi ben oltre il Novecento. La seconda radice è l’ostilità verso l’Unione Europea, vista — al di fuori dei circoli liberali e progressisti — come una sovrastruttura burocratica, capace di normare le reti da pesca ma incapace di incidere sul piano geopolitico.
Non a caso, molti pro Mosca sono anche anti-europeisti: vedono Bruxelles come un salotto di tecnocrati, un’appendice del dominio tedesco, un ostacolo alla sovranità. In questo vuoto di leadership, Putin diventa — per alcuni — l’alternativa virile, il volto di una politica che “finalmente” decide.
Oggi, la geografia dei pro Putin attraversa l’intero spettro politico italiano: dalla sinistra postcomunista all’estrema destra postfascista, con una particolare densità fra i sostenitori della Lega e, in maniera più sfumata, fra quelli del Movimento 5 Stelle, tra pacifismi selettivi e ambiguità sull’alleanza atlantica. Insomma: ex comunisti, post-missini, populisti e sovranisti, o almeno una parte di loro, convergono in una simpatia per il Cremlino che prescinde dalle appartenenze ideologiche. Il risultato è un miscuglio storico privo di coerenza, dove le radici si perdono tra slogan, posture e algoritmi. Ed è proprio lì, nella confusione ideologica, che prospera il culto di Putin: quando si traveste da pacifismo, si insinua nel neutralismo, e dietro lo schermo dell’equidistanza maschera una complicità che legittima il potere.
In ultima analisi, l’entusiasmo diffuso per il neo-zar non celebra la Russia — in quanto culla di pensiero, arte e umanità — ma un regime che ha cancellato le aperture di Gorbaciov, ridotto la democrazia a caricatura autoritaria, violato confini e aggredito uno Stato sovrano. Un culto dell’uomo forte che in Italia trova sempre più nuovi adepti, spesso travestiti da pacifisti, neutralisti: quelli del “né con la NATO né con Putin”.
Il paradosso è che la propaganda russa, mentre ripropone la visione unificatrice di “russi e ucraini come un solo popolo”, accusa l’Ucraina di essere un covo di nazisti, giustificando l’invasione come una “liberazione”. E il battaglione Azov — nato nell’estrema destra e oggi assorbito nella Guardia Nazionale — è diventato il perno della retorica di “denazificazione” del Cremlino. Come in un gioco di prestigio, la narrazione si rovescia: il trucco riesce, la magia è compiuta. Il putinismo si traveste da antinazismo, ma ne replica le logiche profonde — dominio, violenza, annessione, culto dell’uomo forte. E mentre nei salotti si coltiva l’equidistanza, il “né con la NATO né con Putin” diventa una formula elegante per legittimare ciò che non si ha il coraggio di nominare. Chapeau. Chi ha orchestrato questa macchina retorica è, va riconosciuto, diabolico nella sua efficacia. Puro genio.