L’elmo di Scipio: il ritorno in scioltezza della naja?

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

L’elmo di Scipio: il ritorno in scioltezza della naja?

Condividi su:

martedì 28 Ottobre 2025 - 07:00

Ogni generazione europea si illude, prima o poi, che la guerra sia un capitolo morto e sepolto della storia. Che la difesa sia un affare da professionisti, da delegare a eserciti specializzati, a trattati multilaterali, a budget da approvare in commissione. Ma la realtà, ciclica e ostinata, ci riporta sempre allo stesso bivio: chi è disposto a difendere cosa? E a quale prezzo? Nel 2025, l’Europa torna a misurarsi con il suo nodo gordiano. Lo fa rilanciando piani di riarmo ambiziosi, investendo miliardi nella difesa — sotto l’egida del programma Readiness 2030 — ma anche, e non meno significativamente, riaprendo il dibattito sul ritorno della leva obbligatoria. A occhio, sarà difficile dare corpo — in tutti i sensi — al piano monstre della UE senza mettere in conto, oltre a droni e blindati, anche carne viva: nuovi corpi, cittadini freschi, e una generazione da rimettere in riga. 

La notizia è di questi giorni: la Croazia, che aveva abbandonato la coscrizione prima di entrare nell’Unione nel 2008, ha deciso di riattivarla dal 2026. Diciottomila giovani, due mesi di addestramento, 1.100 euro al mese, e la possibilità di convertire l’esperienza in crediti universitari o vantaggi nei concorsi pubblici. Un’offerta che, in tempi di inflazione e disoccupazione giovanile, suona quasi come un Erasmus in mimetica. Ma dietro l’incentivo, c’è la ciccia: formare cittadini pronti a difendere, a resistere, a servire. Dio, patria e famiglia verrebbe da dire — se il tutto non fosse maledettamente più serio.

In Germania, il dibattito è aperto proprio in queste settimane calde. Oltre ai riservisti, si parla di riaprire le chiamate su base volontaria. E se non bastasse, si ipotizza una quota obbligatoria. Il cancelliere Merz propende per il sorteggio: una soluzione che, a prima vista, profuma di equità. Ma a ben vedere, è poco più che una roulette russa (fuor di metafora). Manco fossimo in pieno Apocalypse Now. Si stabilisce chi deve imbracciare il fucile con lo stesso criterio con cui si vince un pupazzo di peluche alla sagra del paese.

Nel Nord Europa, la leva non è mai uscita davvero di scena. In Finlandia e Norvegia è obbligatoria, in Svezia selettiva. Qui, la coscrizione è vista come strumento di coesione nazionale, di resilienza, di formazione del carattere. Un modo per temprare corpo e spirito alle difficoltà, come se Marco Aurelio si aggirasse tra le tende, sussurrando stoicamente ai giovani soldati. Non è solo difesa: è pedagogia (armata). A presidio delle Alpi, si stagliano due sentinelle dalle vocazioni opposte. La Svizzera, pacifista per statuto e per cultura, incarna la neutralità come forma di identità. L’Austria, sua cugina storicamente più inquieta, meno incline al disarmo, porta con sé un’eredità più ambigua — non fosse altro per aver dato i natali a “baffino”, che di eserciti e colonne qualcosa ne sapeva. Entrambe non hanno mai abolito la leva. La prima la considera parte integrante della cittadinanza, la seconda offre l’alternativa del servizio civile. Modelli diversi, ma radicati. Simile il caso greco, dove, causa della minaccia storica turca, la leva è obbligatoria e rappresenta un pilastro del sistema di difesa nazionale.

Nei Paesi Baltici esistono formule miste: la coscrizione obbligatoria è stata reintrodotta in Lituania, mentre in Lettonia ed Estonia si applica su base selettiva. Mentre in Polonia, il paese più popoloso e importante dell’Europa dell’est, il governo ha avviato programmi di addestramento volontario e ha aumentato significativamente il budget militare. Questi Paesi condividono una memoria storica e una geografia che li rende particolarmente sensibili alle minacce provenienti da est. Leggi Russia.

In Europa occidentale, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi e Gran Bretagna hanno tutti abolito la leva tra gli anni ’90 e 2000. In Francia, Emmanuel Macron ha introdotto nel 2019 il “Service National Universel”, un programma civico e volontario per i giovani, ma non si tratta di una vera coscrizione. In questi Paesi, il modello dominante resta quello dell’esercito professionale, anche se la carenza di personale e le nuove minacce stanno spingendo quasi tutti i governi a valutare forme ibride. E l’Italia? Qui la leva è sospesa dal 2005, ma non abolita. Basta una firma del Presidente della Repubblica per riattivarla. E già si parla di riservisti, di liste di leva aggiornate, di proposte per richiamare ex volontari. La polemica è netta: la sinistra soffia sul fuoco delle contraddizioni, la destra cavalca il tema con entusiasmo. Ma al di là degli schieramenti, resta una domanda: è davvero necessario ricorrere alla leva obbligatoria ?

Negli anni ’80 e ’90, la naja italiana era spesso un parcheggio esistenziale. I miei coetanei, più che imparare a difendere la patria, imparavano a rollare spinelli. E dopo aver fatto “il botto” al CAR, in molti tornavano “scoppiati”; altri mostravano invece di aver assimilato bene le regole del nonnismo: l’”alzabandiera”, il “sacco”, la “schiumata”, e cose così. Fra uno “stia punito” e uno “stai preoccupato”. Fra una “stecca” all’altra. Qualcuno, lontano dalle coccole materne, ne usciva pure temprato. Ma per i più, era un’esperienza traumatica, né utile alla difesa né alla formazione del carattere.

Personalmente, invece, facevo parte di un’altra schiera: quella degli obiettori di coscienza. Quelli che si smazzavano nel sociale, tra cooperative, centri di accoglienza, famiglie disastrate, sostegno ai più fragili, ai diversi, agli invisibili. C’era chi finiva all’Arci Gay, chi in comunità per tossicodipendenti, chi a spalare fango o a fare da spalla a chi non aveva più nessuno. Non era meno faticoso, ma forse più formativo. E gli strumenti che si imbracciavano erano decisamente diversi. Oggi, con il Rearm EU in piena corsa, difficile immaginare che il reclutamento resti fuori dal quadro. Ma se davvero si tornerà a parlare di leva nel nostro Paese, servirà una visione diversa — non solo militare, ma civile, educativa, resiliente. Sempre che questi aspetti non finiscano per contraddirsi a vicenda, come spesso accade quando si tenta di fare pedagogia con il fucile.

Il rischio? Ritrovarsi presto a incrociare — con una densità tutt’altro che simbolica — camionette dell’esercito italiano che sfrecciano per le strade, con sbarbatelli in mimetica a fare da corredo ai nostri ricordi della naja negli anni ’80 e ’90. Nel frattempo, teniamoci pronti. Non si sa mai: magari il prossimo Erasmus sarà in caserma, con tanto di crediti formativi per chi sa fare il sacco a regola d’arte e per chi mostra una resilienza così pronunciata da meritarsi il titolo di “nonno” supremo. E chissà, forse anche Marco Aurelio, da qualche parte, starà aggiornando il suo CV.

Condividi su:

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Commenta