Certo, è difficile andare d’accordo con tutti. Più difficile, forse, che non andare d’accordo con nessuno. Ultimamente, però, pare che il nostro sistema cognitivo — quello profondo, quello che regola percezioni e giudizi — venga messo a dura prova da sollecitazioni sempre più sottili. Ci si guarda intorno, spaesati, e ci si chiede: ma com’è possibile che, in una qualsiasi disputa fra guelfi e ghibellini, non riesca a trovarmi d’accordo con nessuno dei due, né con le loro infinite declinazioni? A quel punto non bisogna disperare: per lo meno vuol dire che siamo vivi e vegeti. Magra consolazione, ma tant’è.
Poi, riflettendoci su, si ritorna alla carica: ma siamo sicuri di stare giocando la stessa partita? E facciamo bene a chiedercelo, di questi tempi, perché tra globalizzazioni distorte e narrazioni virali, potremmo essere teletrasportati — senza accorgercene — su campi di gioco che non avremmo mai immaginato di poter calcare. Nello specifico, un campo di combattimento, immersi nel nel fango fino al collo, al confine fra Russia e Ucraina. Potenza della narrazione. All’inizio sembrava tutto chiaro. L’invasione russa del febbraio 2022: un atto criminale, un’aggressione a uno Stato sovrano, con bombardamenti non solo sui territori contesi del Donbass, ma anche sul cuore pulsante dell’Ucraina, Kiev. Poi, col passare dei mesi — e ormai sono quattro anni — abbiamo assistito a un progressivo slittamento dell’asse narrativo. Non parlo di verità, che è già più complicato. Parlo di flusso narrativo, quello che si aggiusta, si piega, si modella sotto la pressione di fattori endogeni ed esogeni, come direbbero quelli bravi.
La propaganda, da una parte e dall’altra, ha fatto il suo mestiere. E così siamo passati da “Putin criminale” a “Zelensky nazista”, con in mezzo una miriade di distinguo, di analisi, di torsioni retoriche.
Mi chiedo spesso come sarà archiviata la Storia di questo periodo. Tra cinquant’anni, per esempio, quando il 70-80% delle persone oggi viventi non ci saranno più, biologicamente parlando. Bella domanda. Ma forse non serve aspettare mezzo secolo: basta ascoltare gli storici di oggi, quelli di segno opposto, per capire che la trasmissione della Storia non sarà più univoca. E come potrebbe? Di certo non come per la Seconda guerra mondiale. Non ci sarà più un unico solco narrativo, una vulgata tracciata dai vincitori, bensì una costellazione di memorie, di versioni, tutte divergenti e dissonanti fra loro.
E allora concentriamoci sul presente, facendo un grosso respiro. La sintesi, diceva Hegel, è il miglior risultato. Anche se, a volte, nei rivoli si capisce più che nel fiume.
Si può ritenere, senza contraddizione, che la tensione tra Ucraina e Russia sia stata alimentata nel tempo da una politica spavalda di Kiev, in combutta con la NATO. E che l’autocrate Putin sia stato, in una certa misura, provocato. Ma questo non significa che, pur accettando questa premessa, non si allontani dalla verità incontrovertibile: quella dell’aggressione del 2022 al popolo ucraino— con tutto ciò che comporta oggi — per mano della Russia di Putin.
La controprova è semplice. Se davvero Putin si fosse sentito accerchiato, avrebbe avuto alternative. Poteva appellarsi all’ONU, affidarsi a consigli più miti, usare gli strumenti diplomatici a sua disposizione.
Nel Paese degli 007, è sciocco dire che la guerra fosse l’unica opzione. Avrebbe potuto dimostrare che l’Occidente e l’Ucraina lo stavano stringendo in una tenaglia. Che poi, capirai: stringere la Russia in una tenaglia è come ingoiare una forma intera di parmigiano in un solo boccone. Improbabile. E comunque, se avesse almeno provato a far valere la ragione, piuttosto che bombardare a testa bassa, come accadde quel 22 febbraio del 2022, quando Kiev si trovò con i carri armati alle porte, allora — sai che c’è — tutto poteva essere diverso.
Putin ha scelto invece la guerra ad altissima intensità. Da lì, la Storia ha cambiato campo di gioco, oltre che regolamento. Ma si può andare oltre. Certamente. C’è una grossa fetta di opinione pubblica che, pur attribuendo a Putin la responsabilità del disastro, non condivide la risposta muscolare dell’Occidente: il riarmo, l’abbaiare ai confini, la politica a trazione tedesca che cerca la guerra più che evitarla.
Sì, è giusto puntare il dito contro la deriva autoritaria e l’asse sempre più esplicito tra Trump e Putin. Ma non si può continuare a raccontare questa guerra come se fosse una condanna divina. Sono passati quattro anni, e nel frattempo l’Europa si è riarmata, le economie si sono irrigidite, le diplomazie si sono affievolite, e persino il regime di Putin ha trovato nuove scuse per esistere. Con una terza guerra mondiale che bussa insistentemente alle porte.
Trovo difficile emozionarmi in questa Europa che si commuove per la resistenza ucraina ma non sa costruire la pace. Anzi, non mi ci trovo proprio. Piuttosto: invece che procurargli armi, bisognerebbe convincere Zelensky a trattare, seriamente, prendendo in considerazione anche di mettere sul piatto i sacri confini. Anche se l’affronto brucia. Perché prima si ferma il sangue, poi — quando tutto si è calmato — si cerca di stabilizzare, sotto un nuovo equilibrio. Al contrario, se invece continuiamo a stare lì a discutere il centimetro … ciao cuore.
E soprattutto, con uno come Putin — che è tecnicamente un criminale, e non per opinione personale ma per mandato della Corte Penale Internazionale, che lo accusa di deportazione illegale di bambini nel contesto di questa guerra — non si può giocare secondo le sue regole. Quelle regole vanno rovesciate.
Per il bene del suo popolo, Zelensky non si lasci sedurre dalle sirene della vittoria futura — perché non arriverà, e di certo non per grazia dello Spirito Santo. Faccia invece il passo difficile, quello che sblocca lo stallo: fermi i combattimenti, congeli il fronte. Accetti l’ipotesi che moltichiamano “pace coreana”, con la speranza che produca gli stessi effetti di quell’armistizio che, sul 38° parallelo, dura da oltre settant’anni.
Lo faccia per salvare vite, per riportare a casa i bambini, non per cedere all’invasore. Lo faccia per la Storia. E poi tratti — con il coltello fra i denti, ad oltranza — sulle clausole di sicurezza. Blindi una pace sul nuovo confine. Costruisca un futuro che non sia solo memoria di lutti e macerie, ma architettura di sopravvivenza.
Perché, continuare a combattere una guerra che non riporterà in vita i morti e che si propone di provocarne ancora di più, non aiuterà nessuno a stare meglio, non è resistenza: è accanimento. E l’accanimento, in politica come in medicina, non è mai una cura. Specialmente contro un male incurabile.