Stiamo tornando ad essere l’Italia delle bombe. Quelle che all’improvviso scoppiano davanti alla porta di un’abitazione, lasciandosi alle spalle dubbi e interrogativi. Per chi è cresciuto negli anni ’90, sembrava impossibile che certe cose potessero rischiare di ripetersi. Tra le stragi di Capaci, via D’Amelio, piazza dei Georgofili è dolorosamente cresciuta una coscienza civile che somigliava a uno spartiacque, capace di indicare un prima e un dopo. Da un lato l’escalation di attentati che aveva ucciso magistrati, agenti di scorta e semplici cittadini, mentre continuavano le esecuzioni di personaggi “scomodi”: giornalisti, sacerdoti, sindacalisti, politici, imprenditori. O, anche, semplici cittadini, considerati alla stregua di vittime collaterali, da sacrificare sull’altare di una folle strategia della tensione messa in campo dalle organizzazioni criminali e da apparati dello Stato per orientare il futuro del Paese in una certa direzione.
La notizia dell’esplosione delle auto di Sigfrido Ranucci e della figlia, avvenuta venerdì notte a Pomezia, è a dir poco inquietante. E riporta a un clima che sembrava archiviato. Raccogliendo il testimone da Milena Gabanelli, in questi anni Sigfrido Ranucci ha tenuto alta la bandiera del giornalismo d’inchiesta sul servizio pubblico con Report, resistendo alle pressioni politiche, alle querele, alle minacce. Lo ha fatto in un momento in cui il gradimento dell’opinione pubblica verso il mondo del giornalismo è ai minimi storici su scala mondiale: in parte perchè la crisi della democrazia ha riproposto la vecchia dicotomia tra popolo ed élite (e alcuni giornalisti hanno scelto di essere élite, nel senso meno nobile del termine), in parte perchè il potere (politico ed economico) si è mostrato sempre più allergico nei confronti della libertà di stampa, intervenendo anche a livello legislativo per rendere più complicato il lavoro dei giornalisti. Il rischio, per chi fa questo lavoro, è di rimanere isolato. Ed è nell’isolamento che i pericoli aumentano, come ci insegna la storia del nostro Paese. A poco servono i comunicati stampa di solidarietà dei piani alti della politica se arrivano dalle stesse persone che hanno cercato di ridurre gli spazi di autonomia o la tutela legale della redazione di Report, o che attraverso i propri avvocati hanno presentato querele per diffamazione con pesanti richieste di risarcimento.
La storia italiana è, purtroppo, ricca di nomi del giornalismo uccisi perchè il loro lavoro era scomodo (Giuseppe Alfano, Carlo Casalegno, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Giovanni Spampinato, Walter Tobagi) e il presente è fatto da un mesto 49° posto nella classifica annuale sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza Frontiere. Sarebbe bene ricordarlo più spesso.