Un chiarimento è d’obbligo. Dopo l’ultimo articolo “Un Rutte ci seppellirà” – più ironico e sferzante del solito – che prende di mira il segretario Mark Rutte e la funzione stessa della Nato, ho ricevuto qualche messaggio privato: “ma sei davvero diventato putiniano allora?” mi chiedeva qualcuno, fra il serio e il provocatorio. Come se non bastasse, diversi fra gli account che mi seguivano assiduamente hanno deciso di interrompere l’abbonamento. Della serie: ne fa più fuori la penna che la guerra. Allo stesso tempo, però, ho notato un buon numero di nuovi sottoscrittori in entrata. Segno di quanto il dibattito sia oggi irrimediabilmente polarizzato.
Rispondo nel merito, non perché le mie posizioni personali abbiano particolare importanza, ma nella convinzione che parlando di me e delle mie idee qualcuno possa riconoscersi o confrontarsi.
Non ho mai avuto esitazioni su ciò che accadde dal 22 febbraio 2022: l’aggressione russa contro l’Ucraina, accompagnata dai crimini di guerra che il regime di Mosca continua a infliggere a Kyiv. A mente fredda, come molti, ho ritenuto inevitabile l’aiuto militare della Nato e dell’Europa: non si poteva abbandonare l’Ucraina nelle mani di Putin. Su questo punto la mia convinzione non è mai mutata: stare dalla parte di Kyiv era ed è un dovere. Eppure, rimane intatta anche un’altra certezza: ogni giorno dedicato alla guerra è un giorno sbagliato, un giorno irrimediabilmente perduto.
Con il tempo, lontano dall’emotività iniziale, ho iniziato a guardare con più distacco alla narrazione. Ho distribuito le responsabilità nelle giuste caselle. Ho approfondito – come molti – che già dal 2014 la pressione della Nato sul Donbas e sull’Ucraina non fosse affatto disinteressata. Ma, sia chiaro, nulla giustifica l’aggressione russa. Mosca porta la responsabilità di aver trasformato una guerra – fino ad allora – sotterranea in un conflitto ad alta intensità, uno scenario da incubo con centinaia di migliaia di vittime civili e militari. Inaccettabile.
Un punto fermo dunque: l’Ucraina e Zelensky, pur tra scandali e terremoti politici che verranno, andavano aiutati a difendersi. Una posizione morbida allora avrebbe incoraggiato l’orso russo a spingersi oltre il Donbas, fino a ingoiare l’intera Ucraina e – chissà – coltivare mire egemoniche sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Io sono ancora lì. È quello il mio frame di riferimento. Per quanto continui a pensare che la guerra non sia mai una soluzione.
Ciò che è davvero mutato – ed è sotto gli occhi di tutti, come ho ricordato in decine di articoli – è la percezione di una follia che ormai sembra dilagare anche in Europa. I venti di guerra soffiano gelidi nelle capitali europee. La decisione del riarmo – Rearm EU, con il 5% del budget destinato alla difesa – ha improvvisamente acceso una retorica preoccupante. La diplomazia si è inabissata nelle pieghe più ottuse del silenzio. Leader che parlano apertamente di armamenti, che rispondono muscolarmente e in modo scomposto alle provocazioni di Putin: così il rischio di escalation diventa concreto, e l’intera Europa potrebbe finire in fiamme. Anche senza volerlo. Il contrario di ciò che penso io, e – spero – la maggior parte degli uomini di buona volontà.
Pertanto, non per favorire il regime criminale di Mosca, ma per fermare l’emorragia di morti civili e scongiurare una pericolosa escalation che potrebbe portarci alla terza guerra mondiale, la mia posizione è a favore del congelamento del fronte. Ne ho scritto più volte: accettare cioè – almeno temporaneamente – che una parte del Donbas resti sotto Mosca. Normalizzare l’area. Ricostruire. E porre così termine, con un pacchetto di garanzie di sicurezza per l’Ucraina e per l’Europa, a una delle guerre più ingiuste che abbiano mai preso piede sulla terra. Se mai ci sia stata una guerra giusta da combattere.
È una posizione di realpolitik, che mette al centro il valore della vita più che la giustizia assoluta. Non significa lisciare il pelo a Putin, né ammettere che abbia vinto la legge del più forte. Significa, piuttosto, ribaltare l’assunto: vincere mettendolo nelle condizioni di non fare più male.
Ecco perché ogni posizione come quella di Mark Rutte – ragazzone olandese amante della musica e dell’arte – va contrastata. Perché da quelle premesse muscolari non si arriva da nessuna parte, se non dritti verso la terza guerra mondiale.