Di questi tempi, le premesse non sono un vezzo stilistico: sono un salvagente. Per evitare di affogare. Servono cioè a evitare di essere scambiati per ciò che non si è, specie quando si toccano nervi scoperti come l’America, la sua storia, e il suo presente infiammato ed infiammabile. Il rischio di essere etichettati come filo-trumpiani dell’ultim’ora è pertanto reale, ma poco verosimile per chi, come me, ha disseminato ogni singolo articolo di pensiero critico. Basta allinearli per titolo e il quadro si compone da sé.
L’intento di questo scritto, scomodo come spesso succede, non è quello di riabilitare la storia degli Stati Uniti né di assolvere le colpe di un passato macchiato dallo sterminio delle tribù native. Non mi interessa fare l’avvocato difensore della nazione che ha spazzato via i Navajo, i Sioux, gli Apache, i Cheyenne e altri popoli per costruire la propria identità. Mi interessa, piuttosto, dimostrare che la genesi degli stati moderni, per quanto recente e brutale, non è poi così diversa dalle lotte sanguinose che hanno insanguinato l’Europa per secoli.
Chi oggi si scandalizza per la violenza fondativa americana dovrebbe ricordare che le due guerre mondiali sono nate nel cuore dell’Europa, quella stessa Europa che all’inizio del Novecento si autoproclamava culla della civiltà e faro del mondo conosciuto. Eppure, da lì è partito il tritacarne tristemente conosciuto come Olocausto. Altro che civiltà.
L’idea che gli Stati Uniti siano il male assoluto, il paese monstre da additare con disprezzo, è figlia di una propaganda antiamericana, vecchia quanto il mondo, che ha ripreso vigore da quando Trump è tornato in sella. Ma attenzione: qui non si porta acqua al mulino di chi giustifica l’imperialismo americano, tantomeno si fa il tifo per la Cina di Mao o l’Unione Sovietica della Guerra Fredda. Si cerca, piuttosto, di mettere in fila le cose, con le dovute differenze, per dire che tutte le nazioni moderne, se solo si scavasse un po’ nel loro passato, avrebbero di che vergognarsi.
Massacri, genocidi, persecuzioni, guerre feroci, regimi di terrore: la lista è lunga e non serve nemmeno scomodare gli archivi. L’Olocausto nazifascista, le purghe staliniane, le stragi giapponesi in Manciuria, le deportazioni forzate in Nord America, il saccheggio del Congo da parte del Belgio, o del Sudafrica da parte dei Boeri, e – volendo andare indietro nel tempo – la missione coloniale della corona spagnola con i conquistadores dell’America Latina, preda di macellai senza scrupoli che rispondevano agli ordini di Cortés e Pizarro. E ancora: l’antica Roma, Gengis Khan, gli Ottomani, le invasioni barbariche in Europa che hanno sconvolto il nostro continente per secoli bui e senza speranza. Tutti i popoli, tutte le nazioni che oggi chiamiamo civili – compresa la pagina nera dell’Italia coloniale in Abissinia – hanno lasciato dietro di sé una indelebile scia di sangue. E l’Europa, che oggi si indigna a comando, ha avuto secoli per perfezionare l’arte del massacro.
E allora no, non ci sto. Non ci sto a vedere montare un odio ideologico e programmatico contro gli americani, come se fossero gli unici ad aver mancato di rispetto alla Storia. Non ci sto a vedere orde di haters, giovani e meno giovani, abboccare al giornalista di turno che, cavalcando un sentimento ben riconosciuto, racconta solo la mezza storia. Una parte tagliata e cucita su misura per ottenere qualche like, alimentando un modello ideologico che oggi, complice la politica dissennata di Trump, rivive più forte che mai.
L’America è stata grande ed è stata feroce. Ha esercitato pressioni militari, ha difeso soprattutto i propri interessi, ha prosperato spesso a scapito di altri. Ma lo ha fatto perché si è trovata nella posizione – di forza – di poterlo fare. Di poter comandare. Sostituendosi cioè a quello che prima di lei ha fatto la Gran Bretagna, e prima ancora la Francia, e prima ancora la Spagna, il Portogallo e l’Olanda. E, diciamolo pure, al posto suo qualcun altro avrebbe fatto peggio. La storia non è – purtroppo – un pranzo di gala. E non dimentichiamo che per ben due volte, durante le due guerre mondiali, gli Stati Uniti hanno tolto le castagne dal fuoco agli Europei… prima che si carbonizzassero irrimediabilmente.
Per questo e altro, non mi sognerei mai di condannare per partito preso gli uomini e le donne americane e la loro cultura democratica, sulla base di argomenti ideologici. Non li disprezzerei come fossero paria, né li considererei peggiori di tanti regimi autocratici e dittatoriali – la Russia di Putin in testa – che, paradossalmente, piacciono tanto a molti detrattori degli Stati Uniti. A giudicare dalla breccia che fanno ultimamente in tanti che subiscono la figura – “criminale” – di Putin. Ricordiamo sempre: criminale, perché ricercato dal Tribunale internazionale dell’Aja. Una fascinazione per lo zar accarezzata negli ambienti di estrema destra e ed estrema sinistra. In quella sinistra che si sovrappone probabilmente ai dettami della filosofia Woke e che, criticando l’imperialismo americano – che è innegabile – vorrebbe assumere le colpe su di sé, sugli errori dell’uomo bianco, per ripagare un passato a dir poco discutibile. Un’autofustigazione postuma per una colpa ereditata dagli avi che non porta a niente di buono per nessuno.
Come pensate che si possano sentire, ad esempio, le nuove generazioni tedesche, studiando gli orrori dei loro avi nazisti? O i nostri ragazzi studiando le storture del regime fascista, delle leggi razziali e della connivenza con il nazismo? Non c’è bisogno a volte di andare così lontano in America, per trovare colpe collettive da dover ancora sanare. Per metterci in armonia con noi stessi. Basterebbe studiare la nostra di storia. Mantenere viva la memoria. E imparare dagli errori. Per non ripeterli mai più.
È così che, mentre la scuola trumpiana MAGA tenta di immobilizzare il dissenso e di ridurre il pensiero critico a slogan da comizio, l’America riesce ancora a produrre segnali di vitalità democratica che altrove sembrano ancora utopia. Non è solo il fatto che un giovane di origini ugandesi e indiane sia stato eletto – recentemente – sindaco a 34 anni – Zohran Mamdani. È che, in mezzo a una polarizzazione feroce, città come Chicago, Los Angeles, Washington D.C., New Orleans, Dallas e Seattle, sono oggi guidate da sindaci afroamericani, mentre Miami ha scelto un ispanico figlio di un cubano. Non è folklore: è democrazia che respira. Nella speranza che possa resistere ai colpi non proprio leggeri che l’amministrazione Trump sta tentando di infliggergli.
E allora, prima di puntare il dito, forse dovremmo guardarci allo specchio. In Italia, dove l’integrazione è spesso una parola da convegno e raramente una realtà fattuale, ci si riempie la bocca di civiltà ma si fatica a immaginare un sindaco nero in una grande città. Chissà tra quanti decenni – o secoli – potremo dire di aver fatto altrettanto.
Forse, invece di condannare l’America per sport, dovremmo imparare dalla sua resilienza. E magari, prima di parlare a vanvera, fare un bagno di onestà intellettuale. Non è mai troppo tardi per smettere di raccontare solo metà della storia. Basterebbe poco.