Dalla zuppa al camino ai like da due lire: il tramonto dell’intellettuale indipendente
C’erano giorni in cui il mondo si apriva appena dopo pranzo. Il musetto ancora cerchiato di sugo, il pallone sotto braccio, e via, a scorazzare in strada. Nessuno ti cercava, nessuno ti controllava. Il pomeriggio era un continente da esplorare: corse in bici tra le savane delle periferie, ginocchia sbucciate come carte geografiche, acquitrini pieni di giochi inventati e avventure. E alla fine della giornata si tornava a casa esausti, felici. Se andava bene, pane, vino e zucchero per merenda. Se l’avevamo fatta grossa, minestra calda e via a letto. Era un mondo che respirava al ritmo delle cose semplici, genuine. Un tempo scandito dalle stagioni e dai riti settimanali: il sabato del villaggio, la domenica sera col magone, il giovedì con la pasta fresca.
Oggi, appena quarant’anni dopo, quell’orizzonte è svanito. I parchi sono deserti, le strade silenziose. I bambini non giocano: si ritirano, accovacciati tra muretti e panchine, ciascuno immerso nel proprio smartphone. Comunicano, sì, ma attraverso schermi. Il gioco diretto, la parola viva, il conflitto creativo sono stati sostituiti da notifiche e emoji. Viviamo in una prigione dorata, costruita per proteggere i nostri figli, ma che li ha isolati dal mondo.
Lo smartphone ha divorato ogni contatto con la carta, con la realtà tangibile. I libri, i giornali, il loro odore, il diritto di appallottolarli, di farne aeroplanini, persino le riviste nelle sale d’attesa sono scomparse. Per chi ancora coltiva il privilegio aureo della lettura, Kindle e tablet hanno sostituito la fisicità del libro. Ma non è una questione di supporto: è la mente che si è atrofizzata. Il cervello, intrappolato in loop infiniti, ha perso la capacità di comprendere. Non si legge più per capire, ma per confermare ciò che già si pensa. È l’era del brainrot: il marciume cognitivo che ci impedisce di uscire dalla ruota del criceto.
Uno studio dell’OCSE (PIAAC – Programme for the International Assessment of Adult Competencies) ha rilevato che circa il 27% degli adulti italiani possiede competenze di lettura molto basse, al punto da non riuscire a comprendere testi semplici. Non perché siano complessi, ma per una somma di fattori: tra questi, la progressiva scomparsa di figure intermediarie – il maestro, il professore, il giornalista, il divulgatore – che un tempo aiutavano a decifrare il mondo. Quelli attorno ai quali siamo cresciuti, quando la televisione faceva anche cultura. E l’intellettuale era ancora una istituzione da difendere.
Programmi come Mixer, Samarcanda, Il Fatto, Blitz e Babele erano molto più di semplici trasmissioni televisive: erano ponti tra sapere e società, luoghi dove il cittadino poteva misurare il proprio pensiero, confrontarsi, crescere.
E allora il ricordo corre a Piero Angela, che ci ha insegnato a leggere i meccanismi della natura con rigore e meraviglia; a Umberto Eco, che ci ha mostrato il mondo come un reticolo di segni da decifrare; a Leonardo Sciascia, voce limpida e ostinata in difesa della giustizia e della verità.
A Enzo Biagi e Indro Montanelli, custodi della memoria, attenti a tramandare la storia con onestà e precisione; e a Giorgio Bocca, che attraverso la cronaca ci ha insegnato il valore della denuncia, il dovere di dire ciò che non va.
Figure diverse, ma unite da una stessa tensione etica: quella di rendere il sapere accessibile, vivo, necessario.
E oggi? In questo deserto culturale, sono rare le voci che riconosciamo come terze, super partes. Il pensiero critico è stato sostituito dal pensiero binario. E purtroppo non ha risparmiato nemmeno gli intellettuali.
L’intellettuale, per definizione, è colui che pensa al di là del contingente, che si assume il rischio del dissenso, che non cerca consenso ma verità. Fino agli anni ’80, ad esempio non era un opinionista qualunque: era un pungolo, una coscienza. La lezione di Pasolini – barbaramente ucciso nel 1975 – e che scriveva contro tutti, era stata digerita: con Sciascia che denunciava anche la sinistra quando tradiva la giustizia, o Eco che rifletteva sulla manipolazione mediatica e Bocca che raccontava l’Italia senza fare sconti a nessuno. Erano intellettuali scomodi, indipendenti, autorevoli.
Oggi, invece, l’intellettuale è embedded. Non tanto “schierato”, quanto assediato. Ha bisogno di sentirsi parte, di ricevere approvazione, di accumulare like. Anche lui è vittima del sistema che invece dovrebbe criticare. Il suo pensiero si piega alle logiche delle due squadre, pro o contro: Israele, Russia, Meloni, Trump, Ucraina. E tutti gli argomenti divisivi che compongono la galassia dello scibile umano. Non c’è più spazio per la terza via, per il pensiero libero. Ci sono solo due eserciti in campo, e nel mezzo, il vuoto eterno.
Purtroppo — grazie, o forse sarebbe meglio dire a causa — della televisione e dei social media, il ruolo dell’intellettuale si è progressivamente diluito in una folla di voci che occupano lo spazio pubblico: virologi in cerca di ribalta, professori universitari in trasferta mediatica, comici che filosofeggiano, artisti che pontificano, psicologi da palinsesto, giudici con il microfono sempre acceso. E compagnia briscola. Raramente filosofi, raramente sociologi: il loro pensiero, troppo profondo e poco televisivo, non fa audience. Così il dibattito si è svuotato della “critica” necessaria, e il pensiero travestito da spettacolo mediatico.
Questa crisi dell’intellettuale si avverte con particolare intensità nel campo progressista, dove storicamente si è rivendicato il ruolo di coscienza critica e voce autonoma. E quando quell’indipendenza viene meno, il vuoto si fa sentire. L’intellettuale di destra, invece, per tradizione più vicino all’ordine che al dissenso, appare francamente quasi come un ossimoro. Eppure, anche lì, il pensiero libero dovrebbe poter germogliare. Perché la libertà intellettuale non ha un colore. Quello che ci vuole è solo coraggio, dignità e onestà intellettuale.
Il vero dramma non è manco la polarizzazione, ma la rinuncia. L’intellettuale che abdica cioè al suo ruolo, che smette di essere pungolo e diventa megafono di una parte politica. Che timbra il cartellino nei salotti televisivi, recita il copione che ci si aspetta da lui, e non osa più dire ciò che pensa. Per paura di essere linciato dai follower, di perdere consenso e di uscire dalla comfort zone. Una vera disgrazia per molti, evidentemente.
Eppure, il pensiero libero nasce proprio lì: nel dissenso, nella solitudine, nella fatica. Bisognerebbe tornare a quel profumo di zuppa attorno al camino, alla pasta e fagioli fresca del giovedì, alla primavera con i suoi odori. Ricordare quando il capriccio era solo uno sfogo, e che poi si tornava bambini. Con la propria testa. Senza demandare la propria personalità ai social.
Sarà un giorno felice, quel giorno in cui un intellettuale potrà dire davvero ciò che pensa. Senza temere il linciaggio digitale, lo shitstorm. Senza dover scegliere necessariamente tra due fazioni. Senza doversi abbeverare a un’ideologia per garantirsi i viveri. Quel giorno, forse, l’intellettuale tornerà bambino. Sporco di sugo, con le ginocchia sbucciate, libero di correre nel mondo. E ricomincerà a pensare. A pensare liberamente: out of the box.