Ma tu sei di destra o di sinistra?

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Ma tu sei di destra o di sinistra?

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mercoledì 05 Novembre 2025 - 06:00

Domanda semplice, risposta impraticabile. O forse superflua. In un tempo in cui la semplificazione è diventata automatismo e l’etichetta scorciatoia, essere “fuori asse” non è più solo scomodo: è considerato una deviazione da correggere, una stranezza da archiviare, oppure — al meglio — qualcosa da riporre in uno scaffale ideologico già pronto, con tanto di codice a barre e QR code per la consultazione rapida.

Eppure, fino a prova contraria, si può ancora pensare liberamente.

Si può dire, ad esempio, che il Meridione d’ Italia non è un’appendice da sostenere a colpi di bonus e sussidi, ma un corpo vivo, strategico, che merita ascolto, rispetto e — cosa tutt’altro che secondaria — fiducia, peso politico e culturale. Non soltanto come bacino elettorale utile per i conti con o senza oste a Roma, né come cartolina folkloristica da esibire a Bruxelles, ma come snodo cruciale tra Europa, Africa e Medio Oriente. E poterlo affermare senza essere subito etichettati come “sovranisti”, “neoborbonici” o “revanscisti”.

Si può — si dovrebbe — affermare con chiarezza che Israele ha diritto a esistere, a vivere, a non essere bersaglio dell’odio che gli ultimi anni, tragici e laceranti, hanno alimentato. E allo stesso tempo, si può — si deve — condannare con fermezza un governo criminale, quello di Netanyahu, che ha trasformato Gaza in un cimitero di sangue e macerie, e la dignità del popolo israeliano — se non l’identità stessa degli ebrei nel mondo — in un ostaggio politico. Perché bombardare ospedali, scuole e rifugi non è più guerra. Non è difesa. È distruzione dell’umanità. E di un popolo.

Si può esercitare una critica radicale all’Europa dei tecnocrati — quella che si esprime in sigle, si nutre di algoritmi e si rifugia nel gergo della governance — senza per questo auspicare l’uscita dall’Unione. Si può assumere il ruolo di pungolo, di stimolo, persino di contrappunto, senza essere etichettati come nemici del progetto europeo.

Allo stesso modo, è necessario mettere in discussione l’atlantismo acritico della politica italiana — quella che accoglie ogni missile “alleato” come fosse un fuoco d’artificio — senza per questo essere arruolati tra i filoputiniani o i nostalgici del Patto di Varsavia.

Si può stare dalla parte dell’Ucraina, condannare senza esitazioni l’invasione russa, e allo stesso tempo non ignorare le responsabilità di Kiev e della Nato nell’escalation che ha preceduto il conflitto. E si può riconoscere che la guerra non è un videogioco: ogni soldato morto è una sconfitta, non un punteggio. Perché agire con diplomazia non significa essere deboli e affrontare lo scorno della resa. Fermarsi, arretrare, concedere — quando necessario — può essere invece più morale che avanzare a testa bassa verso il baratro. Prima che sia troppo tardi.Subscribe

Si può — e si deve — criticare ferocemente Donald Trump: per i suoi metodi, per la sua retorica, per i contenuti della sua politica, per quell’estetica da wrestling che trasforma la politica in spettacolo e la verità in provocazione. È un cattivo maestro, esecrabile nei toni e nei modi. Ma proprio per questo, è impossibile ignorare il fatto che abbia intercettato qualcosa che altri continuano ostinatamente a non vedere. Ha parlato — a modo suo — a una parte di società che non era più abituata a sentirsi chiamata per nome. Quei “rednecks” dell’America profonda cui Trump ha dato una voce, per quanto distorta. Parliamo di persone che non leggono i report del The Economist, ma sanno esattamente quanto costa un litro di latte. Di chi ha smesso di credere in un sogno. O forse, di chi un sogno non l’ha mai avuto. Di coloro che la politica ha smesso di ascoltare da decenni, salvo rispolverarli in campagna elettorale come comparse da comizio. Ed è grazie al loro voto che oggi lui è lì.

Essere “fuori asse” significa questo: rifiutare la semplificazione della complessità in slogan. Non piegarsi alla logica binaria del “con me o contro di me”. Non brandire la cultura come clava per farsi largo nel vuoto, ma usarla come lente per ampliare lo sguardo. Significa anche esplorare la propria resilienza, spingendola oltre ogni prova di tolleranza.

Il pensiero che si riconosce in questa newsletter, FuoriAsse, si colloca nel solco della democrazia liberale e sociale, intesa come equilibrio tra libertà individuale e giustizia collettiva. Non è incasellabile nella semplificazione della destra, né nella moralizzazione della sinistra, né tantomeno nella tecnocrazia in cui il centro si è rifugiato.

Il progresso politico e culturale non è una marcia lineare, ma una sintesi che tiene insieme elementi diversi, ripensamenti, revisioni. Le azioni politiche non sono monoliti ideologici, ma strumenti porosi e malleabili, capaci di dare forma concreta a scelte dentro una realtà complessa, spesso spaventosa.

È una visione che riconosce nella dignità umana il fondamento di ogni scelta pubblica, e nella logica civica uno strumento per orientarsi senza cedere né all’estremismo né al relativismo. Non si tratta di neutralità, ma di una posizione critica, autonoma, che non chiede legittimazione a nessuna appartenenza.

Non si scrive per partito preso. Si scrive per passione, perché l’intellettuale autentico è una cinghia di trasmissione tra realtà e politica: una voce pensante, interprete del presente, osservatore attento, tessitore di senso e, quando necessario, provocatore costruttivo.

Non si tratta di giudicare chi interviene nel dibattito pubblico. Anzi, ben vengano le voci di scrittori, giudici, rettori, imprenditori, artisti, virologi e professionisti vari, che, proprio grazie alla loro posizione, impongono una riflessione più profonda. Ma è legittimo auspicare che questo contributo avvenga da una postura terza, non allineata, capace di generare pensiero senza doverlo per forza incasellare.

Sarebbe un bel regalo, per la società politica, se gli intellettuali non fossero sempre e solo “di qualcuno”. Se potessero criticare le derive narrative di questa destra autoritaria, e non di rado ostile alla libera informazione, senza dover indossare necessariamente la maglietta della sinistra. Se potessero smarcarsi dalle battaglie identitarie senza essere accusati di tradimento.

E se gli intellettuali tornassero a essere scomodi, non schierati, ma necessari? Perché, alla fine, la dignità — quella vera — non è né di destra né di sinistra. È umana. E dovrebbe essere il primo articolo di ogni costituzione interiore.

Ma tanto, lo so, alla fine, la domanda arriva sempre: “Ma tu, Pipitone, sei di destra o di sinistra?” E ogni volta, la risposta sarà la stessa: “No. Sono fuori asse. E mi trovo benissimo.”

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