Una domenica da te, una da me: quando la geopolitica si apparecchia come un pranzo in famiglia.
Inutile nasconderlo. Da qualche tempo si è instaurata una simmetria sottile ma persistente tra ciò che accade a Washington e ciò che si riverbera a Roma. Non si tratta soltanto di programmi elettorali o di muscolarità d’approccio. È qualcosa di più profondo, più viscerale: una convergenza di posture ideologiche, linguaggi, strategie di comunicazione e ossessioni narrative che tendono a sostituire lo spazio della politica con la performance. Un insieme di valori condivisi, al quale Meloni non esita ad accostarsi, ad ogni occasione utile — non solo per calcolo, ma anche per affinità elettiva.
Un dato di fatto da cui partire, senza troppi giri di parole: Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America e vecchio lupo dalle zanne ingiallite, pare aver sviluppato una fascinazione tutta platonica per Giorgia Meloni. Non una semplice simpatia da cerimoniale diplomatico, ma una vera e propria cotta adolescenziale. Una tenerezza che, a tratti, sfiora il patetico. Sarà genuina? Tenero lo è, genuino forse anche, se non fosse per quel retrogusto imbarazzante. Cringe, direbbero oltreoceano. Va da sé: i rischi dell’amore senile.
Ma attenzione: dietro il romanticismo da cartolina, resta lo spietato businessman. Quello vero. Quello che conta i ricavi prima dei voti. Trump non è solo il corteggiatore impacciato: è anche il magnate che fiuta l’affare, il venditore di sogni a stelle e strisce, l’uomo che ha trasformato la politica in un casinò di Las Vegas.
Il copione Trump–Meloni è quello consueto, quello a cui Trump ci ha abituati. La loda in ogni consesso, la evoca nei discorsi, la rilancia sui social, la venera quasi come una madonna. E lei? Gongola, naturalmente. Lusingata come chiunque sarebbe di fronte a simili attenzioni, pur provando — immaginiamo — il brivido di un malcelato imbarazzo. Superato il quale, con tempismo impeccabile, non manca di ricambiare con affetto sincero, sguardi melliflui e posture da vamp nel mostrarsi attaccata al suo mentore d’oltreoceano.
Il parallelismo strategico è evidente: Trump ha un problema al confine, Meloni ha un problema in mare. Trump piange l’attivista Douglas Kirk, Meloni piange il clima d’odio contro la destra italica e contro la sua persona. Trump minaccia di mandare la Guardia Civile a Chicago contro le manifestazioni democratiche? Meloni osserva, studia, prende appunti. Dovesse mai servirle. In fondo, tra un “Make America Great Again” e un “Dio, patria e famiglia”, il passo è breve.
Sì, perché questa “special relationship” tra Meloni e Trump è una costruzione identitaria ad elevata intensità, oltre che a forte impatto emotivo. Una domenica dai tuoi, la successiva dai miei: come ogni nuova coppia di fidanzati che si rispetti. A riprova di ciò, la settimana scorsa Meloni è intervenuta con un videomessaggio trasmesso durante il gala per il 50° anniversario della National Italian American Foundation (NIAF). Nel suo discorso, ha criticato duramente la cultura woke, difendendo il Columbus Day come simbolo identitario della comunità italoamericana e ringraziando Donald Trump per aver rilanciato la celebrazione.
Il giorno dopo, quasi a suggellare l’asse, Trump ha rilanciato un video — artefatto — in cui attribuisce a Meloni accordi diretti con Washington e un ridimensionamento del sostegno all’Ucraina. Il contenuto, tuttavia, è stato smentito ufficialmente da Palazzo Chigi, che ha bollato il video come privo di fondamento e totalmente estraneo alla posizione del governo italiano. No, non è stato un errore, piuttosto una mossa calcolata. A ben vedere, fa parte di una strategia più ampia, in cui Trump sembra usare la premier italiana come ariete, come testa di ponte per scardinare la — peraltro fragile — unità europea. Meloni diventa così una figura utile: sufficientemente autorevole da parlare a nome di un governo, sufficientemente allineata da non creare attriti, ma anche sufficientemente periferica da non minacciare direttamente l’asse franco-tedesco. In questo schema, è evidente, l’Italia non gioca un ruolo da pari a pari, da partner, quanto piuttosto quello di leva strategica. Uno strumento tattico, utile al tycoon, a manovrare a suo piacimento il baricentro europeo senza dichiararlo apertamente.
E così via, in un gioco di rimandi cui ci hanno ormai abituati, i due si spalleggiano nella costruzione del nemico: l’invasore, il clandestino, il diverso. Una retorica d’emergenza permanente che giustifica ogni tipo di irrigidimento del — loro — potere. Un potere che ha sempre bisogno di un nemico da combattere, pena, probabilmente, la “semplice banalità del governare”, con tutte le responsabilità e gli oneri che ciò comporta.
Forse, un tempo, avremmo salutato con entusiasmo i buoni uffici tra Roma e Washington. Oggi, ci appaiono come il segno di un decadimento dello stile, del rispetto, della dignità. Uno stile a cui Trump ci ha abituati, e che Meloni, con abilità, cavalca spudoratamente.
Da qui in poi, il parallelismo USA–Italia si incrina. Perché se in America 2.500 città si mobilitano contro il presidente, dipinto come un tiranno durante il “No Kings Day” di sabato scorso, in Italia regna l’assopimento generale. Nessun corteo oceanico, nessuna città paralizzata. La propaganda governativa tiene salda la linea, e la contraerea di destra — in tutte le sue declinazioni — serra le fila di fronte ai timidi guizzi dell’opposizione.
Eppure, i motivi per scendere in piazza non mancherebbero. La concentrazione del potere, la libertà di stampa compressa, l’assenza di contraddittorio da parte della premier, le derive anti-sindacali, le riforme costituzionali che fanno gridare alla deriva autoritaria. E poi l’economia: stagnante, tenuta in piedi solo dal PNRR, mentre il portafoglio dei cittadini si assottiglia sotto il peso dell’inflazione e della povertà crescente tra i ceti medi.
Ce ne sarebbero, eccome, di argomenti. E anche di scuse per scendere in piazza in maniera massiccia. Oltre che, come è successo recentemente — in maniera sacrosanta — contro il massacro di Gaza. E invece nulla. Meloni può dormire sonni tranquilli, anche se l’opposizione — da Amsterdam — denuncia un regime di estrema destra. Certo, Schlein finalmente alza la voce. Ma il rischio è che tutto resti confinato nei talk show, nei tweet, nei comunicati stampa. La piazza, quella vera, latita. Non invade le strade. Non fa rumore.
A questo punto, per capire dove andrà a parare Meloni, non ci resta che osservare le mosse di Trump. Se lui alza la voce, lei lo segue. Se lui cambia rotta, lei si adegua. È una danza a due, dove il passo lo detta sempre il più anziano. Quello che ci si può solo augurare è che il tycoon la tocchi piano.
Si perché, se davvero Meloni è l’allieva, allora l’Italia rischia di diventare il laboratorio europeo di una destra post-liberale, muscolare, identitaria e impermeabile ad ogni tipo di dissenso. Cave canem.
[ Gianvito Pipitone ] https://gianvitopipitone.substack.com/