I fatidici anni ’80: la festa che non ha mai chiuso

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

I fatidici anni ’80: la festa che non ha mai chiuso

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lunedì 11 Agosto 2025 - 06:30

La memoria è una videocassetta che s’inceppa proprio nei punti più emozionanti e si riavvolge da sola quando meno te l’aspetti. L’altra sera, a un party a tema anni ’80, tra luci al neon e playlist spietate, quel nastro interno ha ripreso a girare, liberando figure dalle spalle larghe come un quarterback di football americano e chiome gonfie come nuvole di zucchero filato. Spalline sagomate modello Jeeg Robot d’acciaio, colori fluo impazziti e permanenti che, al confronto, Valderrama (chi se lo ricorda?) sembrava un punk spelacchiato. Ridevamo del fatto che negli anni ’80 la serietà fosse un optional e l’autoironia un dovere civico.

La festa incarnava perfettamente lo spirito di quei tempi, un museo a cielo aperto dell’analogico, un reliquiario di oggetti rumorosi e miracolosi: audiocassette TDK con biro autoavvolgente, VHS con linguette strappate e film sovraincisi, Walkman, radiocuffie fruscianti, walkie-talkie da 007 di quartiere, telefoni a rotella solenni, videoregistratori con l’ora lampeggiante, floppy, Commodore 64 e Amiga, joystick Sega, Nintendo con Mario Bros, telecomandi a mattonella e Polaroid grigie e diafane come le foto che sviluppavano.

La colonna sonora della serata, inutile dirlo, un tripudio di elettronica: Duran Duran e Spandau Ballet e il culto del “lucido”, Madonna e la sua profanazione pop, il semovente Michael Jackson, il sofisticato Bowie mentre mutava pelle e noi con lui e il rock romantico e muscolare di Freddie Mercury insieme alle sue pose da Queen incontrastata. A quel tempo, la linea di demarcazione era evidente. Da un lato c’era il fronte americano dell’hard rock americano, col suo impatto scenico e muscolare: Van Halen, Aerosmith, Mötley Crüe, Bon Jovi e i Guns N’ Roses dominavano i poster delle camerette e i sogni ad alto volume. Dall’altro, l’eleganza feroce dell’heavy metal britannico, guidata da Iron Maiden, Judas Priest, Saxon e i Def Leppard: più cupi, più epici, più teatrali.

Anche l’Italia aveva i propri eroi, in scala. Quelli che forse non incendiavano le arene con chitarre graffianti e bassi metallici, ma che comunque sapevano come tenere al caldo i più teneri cuori mediterranei. Raf, Ramazzotti, Morandi, Bertè, Anna Oxa, Baglioni, Mia Martini, Dalla, Venditti, Pino Daniele, Tozzi, i Ricchi e Poveri, persino Toto Cutugno, che ci ricordava, con ironia inconsapevole, che la melodia – se non un delitto – è una seconda lingua madre, parlata da nord a sud.

Anni ’80, gli anni delle compagnie oceaniche, divise per ordine e grado, come in un poema cavalleresco: da una parte i Paninari sul lato soleggiato, Timberland e Moncler come armature, vespe lucide e riviste patinate con Milano come patria ideale; dall’altra i punk e gli alternativi, all’ombra, mentre splendevano di luce soffusa, borchie e chiodi come rosari laici, stivali in pelle e le prime fanzine fra le mani. Come dire: due rette parallele che non si incontravano mai, nonostante condividessero lo stesso autobus polveroso.

La geografia sentimentale includeva le mitiche “imbarcate” nei locali con più sale “trattenimenti” che ospedali, discoteche come cattedrali nel deserto, province profonde come capitali del sabato sera. Le feste di matrimonio nelle campagne più estreme erano quadri naïf che oggi chiamiamo kitsch e ieri consuetudine: salsa tonnata, uova sode ripiene, insalata russa, penne panna e salmone, cocktail di gamberi in coppe di vetro come a bordo piscina, vitello tonnato (pure lui), vol-au-vent, tartine al caviale finto con uova di lompo dai colori sgargianti, insalata di riso con pisellini della pace, pennette alla vodka, prosciutto e melone e, a chiusura, la torta gelato Viennetta, che ci faceva sentire milanesi anche a decine di centinaia di chilometri dal Duomo.

Milano da bere non era uno slogan, ma un’inquadratura: il billboard dell’amaro Ramazzotti sullo sfondo delle guglie, e noi davanti, convinti che il futuro avesse il sapore dell’arancia amara e la voce rassicurante di un’agenzia pubblicitaria. La televisione commerciale ci prese per mano e ci portò dentro il sogno, o era forse un miraggio? …Il rampantismo dei Berlusconi, le utopie di Milano 2 e 3, le speculazioni edilizie come urbanistica dello spirito. E poi, i quiz: da Bis a OK il prezzo è giusto, da Il pranzo è servito di Corrado Mantoni, a Flash e Superflash di Mike Bongiorno, i Festivalbar, il Drive In, Bim Bum Bam, Fantastico, Portobello, Deejay Television, Superclassifica Show, Quelli della notte, Indietro tutta, Maurizio Costanzo Show e chi più ne ha ne metta… la TV che da mattina a sera cominciava a dettarci i tempi, a raccontarci che eravamo davvero “italiani” e che ci cullava in un eterno salotto che non si svuotava mai. E noi con lei, a scoprirci di volta in volta “personaggi” nella nostra altrimenti grigia vita di ogni giorno.

Al cinema, Hollywood riceveva la sua consacrazione popolare: Ghostbusters, Ritorno al futuro, Top Gun, I Gremlins, Indiana Jones, Dirty Dancing… e via andare. Mentre, con il solito ritardo tutto italiano, si provava a sprovincializzare la cultura visiva a forza di: Pozzetto, Celentano, Banfi, Villaggio, Abatantuono, Verdone, Troisi. E già si preparava il terreno per i cinepanettoni, mentre dall’America si assorbiva spesso il peggio del peggio: con Porky’s in pole position.

Gli anni ’80 furono anche spensierati su un continente che aveva ereditato macerie: la strage di Bologna, l’ombra di Aldo Moro, il mistero di Ustica. Mentre Reagan e Gorbaciov si stringevano la mano, dopo decenni di tensioni nucleari. E poi il disastro di Chernobyl che ci riportava alla realtà. Il Muro di Berlino, alla fine del decennio, crollava in diretta dentro di noi; la glasnost e la perestrojka aprivano porte che svelavano regimi oppressivi travestiti da uguaglianza.

Cosa resterà di questi anni ’80? si chiedeva Raf, e la sua voce rimbalza ancora sulle nostre tempie come una cassa dritta in una discoteca che non ha mai chiuso. Anni ingenui, a volte sfacciati, ma capaci di regalarci una spensieratezza operosa, un’educazione sentimentale alla possibilità. Abbiamo nutrito sogni infantili con la serietà degli adulti. E forse, in fondo, nulla ci ha fermati davvero.

Gli ’80 hanno anticipato il futuro con l’innocenza di chi balla sotto un lampadario di cristallo, spalline imbottite come corazze di sogni, un Walkman in tasca e in testa l’idea ostinata che domani sarà comunque un buon giorno. E se non lo sarà, lo faremo sembrare tale con una spruzzata di lacca in più, una canzone a nastro e un sorriso che luccica come il neon su un manifesto dell’amaro Ramazzotti davanti al Duomo.

Certo, Milano… Capitale morale e capitale dei desideri, sofisticata e godereccia, col suo passo frettoloso e impeccabile. In quegli anni ci insegnava a sognare con le Timberland ai piedi e il cocktail di gamberi in mano, tra un telefono a disco e una promessa di carriera. Oggi è sempre là. Ha solo aggiornato il guardaroba e sostituito la musica d’ingresso. Ma il copione è rimasto. Perché, diciamolo: gli anni ’80 non sono mai finiti. Solo che ora portano sneakers, investono in startup e ordinano vini low o no alcool. E il paese applaude, come sempre, in rispettoso ossequio.

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