Viviamo un tempo in cui ragionare è diventato sovversivo. Il dibattito pubblico, specie in merito alla geopolitica, si è trasformato in una arena ideologica in cui si combatte non per comprendere, ma per distruggere l’altro. La questione israelo-palestinese, in particolare, è diventata terreno minato dove ogni parola può esplodere in accuse, indignazione, sospetti.
Dal 7 ottobre 2023, Gaza è teatro di un’offensiva che ha causato migliaia di vittime civili, in gran parte donne e bambini. Quello che si consuma non è solo una guerra, ma una tragedia umanitaria sotto gli occhi del mondo. Alcuni lo chiamano genocidio, altri lo negano con veemenza. Ma, a mio avviso, dibattere sui termini giuridici senza riconoscere l’orrore è una forma di cinismo. In queste circostanze, chi ha ancora fiducia nella giustizia internazionale attende le pronunce del Tribunale dell’Aja, pur sapendo che il diritto, da solo, non può colmare il vuoto morale. In mezzo a tutto questo, io mi sento — semplicemente — dalla parte della vita. Non c’è ideologia che possa giustificare l’annientamento dell’innocenza.
In questo contesto, noto con crescente disagio l’uso disinvolto e impreciso di termini come “sionista”, “ebreo”, “israeliano”. Una confusione semantica che diventa terreno fertile per un antisemitismo strisciante, mascherato da indignazione politica. Criticare il governo israeliano non significa abbracciare posizioni antisemite. Ma per farlo con serietà, occorre distinguere con precisione. Il sionismo è un’ideologia politica, articolata e storicamente evoluta. L’ebraismo è una religione, un’identità culturale. L’Israele attuale è uno Stato, con un governo che può (e deve) essere criticato, ma non confuso con la totalità del popolo.
Leggo giornalmente articoli in cui queste distinzioni evaporano, lasciando il lettore in balìa di slogan. E ogni volta sento il bisogno di precisare, anche con gli amici più cari, che non si può combattere l’ingiustizia facendo di tutta l’erba un fascio.
Ci sono israeliani — ebrei, sionisti, laici — che si oppongono con forza alla politica di Netanyahu: giornalisti come Gideon Levy, politici come Yair Lapid, intellettuali che pagano il prezzo della coerenza. Fuori da Israele, molti ebrei moderati vivono il dramma dell’impotenza, della distanza, della responsabilità implicita. E io, che ebreo non sono, provo a mettermi nei loro panni. Panni scomodi, pesanti. Quello di chi, pur non avendo premuto il grilletto, si sente additato come complice.
In questa tragedia, le vittime innocenti sono sempre le stesse: i bambini e le loro madri. A sparare sono i soldati dell’IDF, ma non si può ignorare che Hamas adotta una strategia spietata, che prevede l’uso di civili come scudi umani, nascondendo armi e miliziani sotto ospedali, scuole, abitazioni. È una politica che strumentalizza il dolore, che sacrifica la vita dei propri cittadini per costruire una narrazione di martirio e resistenza.
Questa scelta non assolve Israele dalle sue responsabilità, ma rivela la doppia crudeltà di un conflitto in cui la popolazione civile è ostaggio di due poteri armati. Hamas non protegge i palestinesi: li espone, li usa, li abbandona. E il governo Netanyahu, con la sua risposta militare sproporzionata, non fa che alimentare questa spirale. In mezzo, ci sono i volti che non fanno quasi più notizia ormai: bambini che muoiono di fame, madri che cercano acqua sotto i bombardamenti, famiglie che non hanno più casa né futuro. È a loro che dovrebbe andare ogni riflessione, ogni parola, ogni gesto.
Ciò che più inquieta, forse, non è soltanto la violenza in sé, ma la perdita di orientamento morale che la accompagna. Assistiamo a un ritorno dell’irrazionalismo, in cui la logica viene sacrificata al sentimento di appartenenza, l’etica alla fedeltà tribale, la compassione alla vendetta. Le regole del vivere civile, che pensavamo consolidate, sembrano sgretolarsi sotto i colpi dell’emotività più brutale.
I comportamenti umani, sempre più spesso, sembrano rispondere a impulsi primordiali, regressivi, come se la bestialità che avevamo illuso noi stessi di aver addomesticato tornasse a bussare alla porta. È la fine della misura, dell’ascolto, del dubbio: un vero e proprio “inverno della ragione”, dove la neve non copre, ma brucia.
Eppure, resta la speranza — ostinata, fragile, ma necessaria — che l’uomo possa ritrovare la via del discernimento. Che torni a rinsavire, non per interesse, ma per una necessità più profonda: quella di riconoscere nell’altro un volto umano, e non un nemico. Altrimenti bisognerà rassegnarsi all’estinzione del genere umano.